L’ultima narrativa di Sebastiano Addamodi Niccolò MINEO
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E' difficile parlare di Sebastiano Addamo da qualche mese, cioè da quando ci ha lasciato, di parlare con distacco, come si addice al critico. Come era difficile farlo quindici anni fa, quando lui era presente e mi ascoltava, e mi diceva che si sentiva "forzato" dalle mie interpretazioni della sua opera. E io rispondevo che il critico, per evidenziare, deve anche isolare. Ora è difficile per la commozione e la nostalgia. E' quasi inevitabile partire dai ricordi personali, anche in forma di testimonianza. Credo poi che sia più giusto farlo a Lentini, per aggiungere un filo alla conoscenza di questo scrittore, di questo intellettuale, di questo amico. Consentitemi di mettere assieme alcuni ricordi. Conobbi Addamo al Liceo di Adrano dove, molto giovane, cominciavo la mia carriera di docente. Era il 1958. anche lui era giovane, però aveva circa nove anni più di me, era ormai intellettuale maturo. Era professore di molo. Se qui è presente qualche giovane professore, voglio ricordare che allora un professore di molo di un liceo classico era una figura autorevole; un giovane incaricato, seppure abilitato, lo guardava con rispetto; aspettavamo che da lui venisse se mai un cenno di saluto o la volontà di parlarci, né avremmo osato dargli del tu di nostra iniziativa. Quando ebbi il mio incarico, lui ed altri docenti erano già insediati da qualche mese. Fin dal primo giorno mi si accostò in maniera molto fraterna e amichevole, e fummo presto amici. Un’amicizia che è durata uguale sino alla fine, anche se gli incontri per la diversità delle occupazioni erano divenuti meno frequenti. La vita ci ha portato ad approdi diversi, e anche il tempo del suo nuovo soggiorno a Lentini contribuì in qualche modo a diradare i nostri incontri. Ma per le occasioni culturali più importanti scattava una sorta di chiamata a raccolta per la comprovata solidarietà e fiducia. Volle, mi limito a ricordare, che fossi io a presentare, a Lentini e a Carlentini, suoi libri di poesie e le pagine memorabili in ricordo della madre. E fui io a scrivere il primo saggio organico sulla sua narrativa, per un convegno siracusano sugli scrittori siciliani. E a questo rimando per la sua produzione sino agli anni settanta. Ma chi era Addamo professore? Molto severo e molto esigente con gli studenti ai quali, più bravi, ai più meritevoli non assegnava più di un sei. Non era però esibizione di rigore. Voleva insegnare quanto sia arduo la via del sapere, quanto sia alta e lontana la meta, come non ci si potesse e dovesse contentare dei vari raggiungimenti nella via del sapere. Addamo fu in questo senso maestro nei confronti dei giovani, maestro di sapere e maestro di vita. Lo studio della filosofia e della storia diveniva veramente processo di acquisizione di maturità umana, di coscienza e di autocoscienza. Le nostre conversazioni erano frequenti e cercate (soprattutto da me), nelle ore di intervallo fra le lezioni o quando si ritornava da Adrano nella nostra città di residenza. Non guidava o non aveva l'auto, e credo che allora non avesse neanche la patente. Avevamo organizzato un simpatico sistema per riportarlo a casa. Gli amici colleghi inseparabili eravamo tre. Saro Soraci, ora preside della facoltà di Scienze della Formazione di Catania, era il terzo. Eravamo nella stessa sezione, io professore d'italiano, Soraci di latino e greco, Addamo di storia e filosofia. Ebbene, al ritorno da Adrano, io tornavo a Giarre, Soraci a Catania. Addamo stava in macchina con me sino a Belpasso quelle erano allora le strade poi passava nell'auto di Soraci e con lui raggiungeva Catania.Era reciproco il desiderio di stare insieme, di farci compagnia e di parlare di tante cose. Veramente era soprattutto lui a parlare: diceva molto delle sue idee, delle sue preoccupazioni culturali e politiche, delle sue intenzioni e delle sue attese. Credo che attraversò questi dialoghi io abbia avuto il privilegio di veder nascere in qualche modo i suoi racconti. Lui me ne parlava e io ho letto le prime redazioni. Aveva bisogno di discuterne, perché era sempre in cerca delle occasioni per approfondire, per chiarire, a se stesso anzitutto, per andare oltre. Mi sorprendeva (o mi sorprese) la sua posizione (ne accennava poco fa il Sindaco) molto attenta e vigile sul terreno delle convinzioni politiche e dell'ideologia. Allora era dominante nell'area della cultura di sinistra, marxista un'idea riguardo alla letteratura, a quello che questa dovesse essere e prefiggersi. Si voleva che la letteratura, la narrativa soprattutto, avesse un'ispirazione e un orientamento positivo, se non proprio ottimistico, dovesse cioè essere volta a scoprire e riconoscere nel profondo della realtà storico-sociale i momenti propulsivi e progressivi. Addamo nutriva forti perplessità in relazione a questo assunto e a questa prospettiva. Sosteneva che vi sono momenti nella storia in cui il momento progressivo non è riconoscibile proprio perché non ha esistenza rilevabile e peso reale: nei momenti storici di destituzione. Dovere del letterato allora è all'opposto denunciare, nella pratica della rappresentazione, il negativo dominante in un determinato momento e in una determinata forma sociale. Questo Lui faceva nei suoi racconti. E tutto questo mi sorprendeva, e anche infastidiva. Naturalmente ci furono dei momenti di sereno e rispettoso dissenso. Dopo tanti anni la lezione della storia mi sono convinto che aveva ragione lui, che aveva ragione a intendere il realismo secondo una prospettiva meno scolasticamente ortodossa. Aspetto ulteriormente evidenziato da un' altra scelta anch' essa in contrasto con l'estetica e la poetica dominante del campo marxista: l'attenzione a un tipo di categorie sociali e quindi di personaggi non considerati simbolicamente rappresentativi della realtà da parte dei teorici di quell' area: i "piccoli borghesi" . Di questi Addamo invece riscopre la tragicità, per influsso anche di letture di narratori europei e italiani a lui molto cari, dai russi dell' Ottocento (Cecov assieme a Dostojevski erano dei sicuri punti di riferimento) al Pirandello delle novelle, al primo Vittorini, Brancati e, poi, Sciascia (della seconda maniera e nei termini di un dialogo più che di una dipendenza). Erano gli scrittori con cui si confrontava, e in cui appunto ritrovava l' interesse per la figura del piccolo borghese, questo rappresentante di una condizione umana che alle grandi filosofie della storia non è apparsa centrale e decisiva nel processo storico e nella società, ma che tuttavia esige attenzione per la sua stessa ambiguità. L'ambiguità che ne fa la tragicità. In quegli anni, si ricordi, Pasolini volgeva il suo interesse a un'altra categoria esclusa della simbolicità storica, il sottoproletariato. Vorrei ricordarvi una pagina dello stesso Addamo, che conclude una raccolta di racconti, i Palinsesti borghesi del 1987, in cui è detto tutto, e molto chiaramente: " Sono qui considerati tre modi di morte del borghese. Direi: piccolo borghese. In verità un tale essere da Marx a Pannekoek a Lukàcs, inserito come viene nella casistica sociale, risulta non più che un reietto, un nato morto, rispetto alle due grandi classi "pure" proletariato e borghesia industriale, cui è devoluto il compito di fare la storia. Il piccolo borghese è solo, non ha assegnati destini storici e neppure categorie universali che lo sorreggano. E' un individuo isolato. D'altra parte, proprio perché tale, perché specie singola, egli non soltanto è radicato nella morte, ma è l'unico che sa di essere mortale. La consapevolezza di un nulla è anch' essa un nulla: tuttavia, il mondo dell'estetica propriamente vi si connette, questo che ha a che fare con la memoria e con il desiderio, quindi con l'assenza. Il piccolo borghese porta tetraggine e cupezza. Una intelligenza risentita, e i malinconici splendori dell' arte. Con questo viatico un lettore, ma anche un critico, potrebbe non travagliarsi oltre a capire e fondarsi come schema interpretativo proprio su queste parole (di profonda carica riflessivaemotiva per altro), come schema interpretativo dei racconti di Addamo, ma in una certa misura anche dei romanzi. Di questi ho parlato qualche tempo fa, qui ne parlerà Silvano Nigro. I racconti dunque mettono a fuoco questa realtà così definita: la morte, il piccolo borghese e la morte, la vocazione alla morte, una destinazione alla morte. E' un tema che Addamo affronta non solo negli ultimi anni, è un tema sia degli anni della giovinezza che della maturità. La morte addirittura, legandosi all'altro suo tema, quello dell'assenza, è vista quasi come la vera realtà, rispetto all’assenza. Mette a fuoco in particolare il rapporto tra il soggetto piccolo borghese e il destino, il destino finale, con vari approcci e varie prospettive. E' quasi una ricerca che si approfondisce da un’esperienza narrativa all'altra. Sarebbe auspicabile un'analisi dei vari racconti nel loro succedersi compositivo ed editoriale. Potrò solo tentare un approccio relativamente ravvicinato a qualcuno di essi. Ma prima va ricordato qualche altro fatto. Qui parliamo solo di una parte della sua attività di scrittore, poeta, critico, opinionista, giornalista. Il quadro della produzione di Sebastiano Addamo è vastissimo e comprende appunto la narrativa, fatta di romanzi e racconti, la poesia, con varie raccolte, la saggistica (anche consegnata a quotidiani e periodici, che ci si rivela sempre più ampia). Sono tutti aspetti che andrebbero visti nella loro successione storica e nei loro reciproci rapporti: la saggistica cioè e la produzione creativa. Mi auguro che qualche giovane studioso possa finalmente dedicarsi a una vera e propria monografia dedicata ad Addamo, che sappia vederlo in tutte le sue attività e nella loro connessione e costruisca anche uno schema di successione sinottico:cronologica. Naturalmente la famiglia potrà essere di prezioso, anzi indispensabile, aiuto in tutto questo. I racconti hanno una vicenda redazionale piuttosto complessa, forse meno i romanzi. Di alcuni cambiaIl1enti posso essere testimone. Ricordo le prime redazioni di certi racconti, che sono abbastanza diverse da quelle definitive. E si avverte nella stessa struttura e conduzione di alcuni di questi una successione di fasi. Sarebbe molto utile avere conoscenza precisa,ricostruire la storia di questo farsi, anche per seguire l'evolversi del rapporto tra scrittura e pensiero. Il saggio, come momento riflessivo naturalmente, nella narrativa di Addamo è presente anche direttamente, ed ha un ruolo orientativo, nella strutturazione stessa, assai importante. Ed è una presenza che ha anch' essa una sua evoluzione, un suo farsi, abbastanza complesso, da un romanzo all'altro e da una raccolta di racconti all'altra. Basti pensare all'impostazione del racconto di Palinsesti borghesi e poi a quella dei racconti di Non si fa mai giorno.Ma il movimento, l'evoluzione sono generali nella condotta del racconto, e abbastanza significativi e marcati. Se ne può ipotizzare una direzione: dall’approccio realistico (con tutte le cautele con cui va usata la nozione di realismo), dall’attenzione cioè al dato di fatto, al dato fenomenico, ci si sposta sempre più verso l'allegorico (anche nel senso voluto da Benjamin) e il simbolico. In qualche caso si può cogliere una volontà di rappresentazione surreale, e i personaggi allora sono vieppiù metafora di una realtà che è altrove. Un dato che distingue profondamente la narrativa di Addamo da quella degli autori indicati prima è la simbolicità del personaggio. Il piccolo borghese, lungi dall’essere condannato all' insignificanza che gli era attribuita, diventa figura metaforica di una condizione universale. Il che vuol dire che diventa lui appartenente a una "c1asse generale". Diventa rappresentativo, in quanto individuo, dell'umano. Eppure, va detto subito, Addamo dà ancora un’altra consistenza a questo suo personaggio. La sua universalità ha caratteristiche specifiche per cui esonera sia lo scrittore che il lettore dal momento della commozione, della simpatia. Questo personaggio, pur misurato in rapporto al destino finale, misurato cioè in rapporto alla morte, non è tuttavia un personaggio trattato con intenzione di provocare commozione. Vale a dire che non è un personaggio trattato in maniera da rappresentarlo dall’interno in modo da affezionargli il lettore. Il lettore non viene fatto partecipare delle sue vicende, non si immedesima, non si identifica. E non perché, contraddittoriamente, all'autore, per la collocazione che gli attribuisce la ricordata teoria sociologica, appaia senza significato, ma per effetto di una implicita maniera dell' autore di vedere il reale. Il piccolo borghese, lui come tutti gli altri, come tutti gli uomini, diventa un personaggio che porta in sé un'universalità in cui si rispecchia una condizione umana senza significato. Addamo forse avrebbe detto senza destino. Anche se una positività, sia pur limitata e ambiguamente contraddittoria, in ultima analisi gli sarà riconosciuta. L’avvio del racconto può ricordare tanti incipit brancatiani o pirandelliani. Si parte dall’impostazione di una situazione. Presto però si sviluppano altre condizioni che determinano una nuova situazione che contraddice e nega quella precedente. In obbedienza a una regola propria della struttura di tanti racconti della tradizione "occidentale", la regola dell' emergenze dell’inaspettato. La nozione e la prassi sono pirandelliane. Ma si pensi anche all’Orlando furioso, in cui l'inatteso investe la struttura stessa dell'ottava. La rappresentazione del personaggio muove da una situazione che sembra un dato costante che non debba subire cambiamenti o alterazioni. Invece a un certo momento interviene l'inaspettato. Quel che caratterizza però lo specifico modo del singolo scrittore rispetto alla tecnica dell’inaspettato è il modo di rappresentare la reazione del personaggio all'inaspettato che lo investe. Nel caso del signor Favilla l'inaspettato è l'insorgenza di una malattia incurabile: il tumore allo stomaco. La sua reazione è, adattando in qualche modo le categorie di Frye, basso-eroica. Si prefiggerà di sopravvivere sino a una data, il 12 novembre dell' anno della scoperta del male. E ciò al fine di ottenere il raggiungimento della pensione, quei sognanti diciannove anni sei mesi e un giorno, il minimo, che potrà poi essere goduta dalla figlia, unico suo lascito. Una tale sopravvivenza sarà a costo di sofferenze fisiche inenarrabili. Ma riuscirà nell’intento. La conclusione della vita di quest’uomo nato per la morte è una sorta di trionfo nel destino della fine. Con una sua contraddizione però perché è una vittoria privata della consapevolezza. E' una vittoria di cui Favilla non saprà mai, perché avrà perso la coscienza prima del fatidico 12 novembre. Quest'uomo, che chiaramente piccolo borghese, ma è tutti noi, nella sua condizione esistenziale può anche lasciare un segno di sé, la traccia di una volontà di vincere, di una sua volontà che è anche volontà di essere e di perpetuarsi. La valenza metaforica dell' insieme è evidente, come referto sulla vita e sulla condizione umana. E questo è il senso metaforico di quasi tutti i racconti di Addamo. Nella raccolta Non si fa mai giorno, del '95, il momento metaforico diventa ancora più evidente, ancora più marcato e significativo mentre l'insieme tocca quasi il surreale. I racconti che la compongono hanno anch’essi una lunga storia, ma nell’edizione finale sono "sviluppati e integrati", come avverte l'autore. Il racconto La mano tagliata parla di un procuratore della repubblica, che vive la contraddizione tra la volontà di giustizia, di una vita regolata dalla legge, e l’inconscio, la "bestia umana", che può esserci, che si annida nell'uomo. Non a caso Freud è più volte citato. Un dato psicologico ed esistenziale che, nella prospettiva narrativa dello scrittore, è assunto come dato universale del nostro essere. E nel contrasto, e nella vittoria, consiste non la grandezza, ché la visione del mondo di Addamo consegnata alla scrittura non consente il termine, ma certo il valore dell'uomo nel suo percorso vitale.
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