Il giorno in cui processai Sebastiano Addamo *

di Aldo Failla  


 

    Non capita tutti i giorni di poter giudicare il proprio giudice, di potere interrogare colui che dell'arma della interrogazione ha per anni fatto strumento del quotidiano vivere. A me è capitato. Ed ho potuto sperimentare di persona come la vita talvolta riservi sorprese di innegabile pregio, atteso specialmente lo spessore del personaggio di turno che anima la vicenda. Ho avuto il privilegio di ricoprire per un quinquennio la carica pubblica di vice Pretore onorario della Pretura di Lentini, carica peraltro ormai desueta, attesa la (discutibile) decisione assunta dal governo di eliminare la figura del Pretore e conseguentemente quella del vice Pretore.

Occupavo quindi, anche se indegnamente, la sedia (perché sempre quella è stata, dal 1948 ad oggi)che fu di Salvatore Paglialunga, di Severino Santiapichi, di Giovanni Falcone, di Vincenzo Didomenico, di Lello Petralia, per tacere d'altri non meno illustri. Tra i primi processi che mi toccò di istruire e decidere, grande risalto ebbe quello che vedeva quale imputato Sebastiano Addamo, si, proprio il mio vecchio professore di Filosofia e Storia al liceo classico Gorgia di Lentini, del quale nel tempo fu anche preside. Appunto Sebastiano Addamo, il "terrore" degli studenti del tempo, che certamente in molti di essi inculcò il suo pensiero laico ma che, comunque, fece "ragionare" in tanti, con tutti confrontandosi.

Dunque, dal mio scanno, quello, più alto dell'aula delle udienze, ove si distribuiva la Giustizia, là dove "la Giustizia è uguale per tutti" per definizione, guardavo, sotto di me, al mio cospetto, il prof. Addamo, già divenuto il grande scrittore e saggista apprezzato da tutti, con il compito, anzi il dovere di processarlo, di giudicarlo, magari di infliggergli la giusta punizione, quella che il reo si merita se ritenuto veramente responsabile del fatto - delitto addebitatogli.

Certo, questa vita a volte così abulica ed abitudinaria in quella circostanza mi consegnò su un piatto d'argento la possibilità, unica in verità, di sovvertire le immutabili regole del gioco, di cambiare le carte in tavola, di essere io il giudice del mio giudice di qualche anno prima, anche se i professori giudici degli alunni non sono (o non dovrebbero soltanto esserlo); ed eccolo, chiamato dal cancelliere in toga ed ermellino, questo mio grande e severo educatore e nemico, per certi aspetti, lì davanti a me, in veste - stavolta lui - di giudicato: mi apparve subito più piccolo di quello che sembrava a scuola, dove era lui a sedere sul posto più alto ed a guardarci, gli studenti, con tono severo, interrogativo, a volte velatamente minaccioso. Si, mi sembrò più piccolo di statura e più arrendevole, in definitiva: mi sorrideva ma continuava a guardarmi quasi a stupirsi di quella pirandelliana situazione conscio della propria parte e rispettoso del gioco delle parti, della propria posizione di imputato e di probabile condannato.

Che diamine, egli aveva proprio una laurea in giurisprudenza! Chissà, forse aveva anche sognato di fare l'avvocato, il giudice ma in quella occasione era un "normale imputato!" Quello che non era altrettanto normale era" che a doverlo giudicare era il suo ex alunno con il quale aveva trascorso diversi anni di vita in qualche modo comune; e negli attimi che hanno precedono l'interrogatorio, ci siamo guardati fissi negli occhi ed io non ho potuto tradire l'emozione nel sentirmi a mia volta interrogato da quegli occhi di grande pensatore che talvolta avevo odiato da studente ma che, per sua ammissione, ero riuscito a fare sorridere sdrammatizzando più volte le sue ore di lezione: "Failla", mi ha detto un giorno, "tu sei riuscito al tempo stesso a farmi prendere le più grandi arrabbiature della mia vita di professore ed a farmi sorridere in un'aula scolastica", e non era cosa da poco conto, per lui.

Invitai, quindi, l'imputato a declinare al solerte cancelliere le sue generalità, cognome, nome, data di nascita, professione, eventuali precedenti penali, e lui mi guardava stupito della domanda, ma si rese subito conto che era quello il modo giusto di celebrare il processo, che, purtroppo, era lui stavolta l'imputato al cospetto del suo giudice: sembrava volesse ricordami che, in fondo, dopo il triennio liceale i nostri rapporti erano stati ben diversi, che era stato a casa mia più volte a pranzo, che era amico di mio padre, per il quale aveva un grande rispetto, che era stato tra i primi ad accorrere alla notizia della sua improvvisa morte, che veniva spesso, la sera, in campagna, a piedi, dalla sua poco distante residenza bucolica ove solamente leggeva e scriveva; ma dovette… declinare le proprie generalità al solerte cancelliere, il quale vestiva i panni di pubblico ufficiale e di ex alunno come me.

Si stupì, ancora, l'imputato, alla domanda rivoltagli dal giudice, se si ritenesse colpevole od innocente del reato contestatogli; sì, perché doveva, da imputato, rispondere di violazione di norme edilizie, per avere costruito, appunto, la sua casa di campagna senza il dovuto rispetto della legge! E per cosa, poi, per quella linda casetta quasi nascosta ai più da vecchi mandorli ed olivi che non aveva voluto estirpare, per concedersi un po' d'ombra e di ricordi! Aveva acquistato agli inizi degli anni sessanta quel piccolo stacco di terreno al seguito dei precedenti effettuati da mio padre e da mio zio non attirato, lui, dalla possibilità di immolare al "dio" arancio tutti i suoi risparmi, (per poi venirne clamorosamente tradito), ma dal desiderio di vivere alcuni mesi dell' anno lontano dai rumori della città e potere tranquillamente leggere la montagna di libri che possedeva e scrivere i suoi, come avvenne.

Scelse quella zona perché lì c'erano i suoi amici, aveva la certezza di . non rimanere isolato, perché da quella zona collinare, tutto sommato più vicina a Catania, poteva guardare senza esserne disturbato i clamori delle sue due città di appartenenza, Lentini e Carlentini che già allora con le nuove costruzioni stavano avvicinandosi "fisicamente"; chissà, se un giorno si sarebbero potuti unificare i due centri, non soltanto strutturalmente, questo si dicevano i due carlentinesi e lentinesi per scelta ed esigenza lavorativa, Addamo e mio padre.

Allora, l'imputato, di certo addottrinato, non si dichiarò colpevole, non dette al suo giudice temporale quella soddisfazione, ma quasi con sarcasmo ed ironia (erano le sue doti maggiori) disse che, forse, il reato, se mai si fosse consumato, era già coperto da prescrizione od amnistia.

Diamine! Anche io sapevo l'epoca di costruzione di quella casetta, dove il professore studiava e leggeva ed era quasi sempre assorto nelle sue meditazioni, tanto da non accorgersi, un giorno, che un ladro era entrato in casa saltando sopra il tetto con grande rumore, ritenendo la casa disabitata, tanto era silenziosa; e quel maldestro ladruncolo, cadendo dal tetto, pure si fece male e si spaventò nel vedersi soccorrere dall'impensabile abitatore, pronto ad accorrere in suo aiuto; e quando i due si presentarono, credo che il ladruncolo rifiutò, per propria ignoranza, l'unico bene asportabile e di una certa importanza di quella casa e che comunque gli venne offerto: un libro; e se ne andò ancora incredulo e zoppicante, tenendosi il dolore quale indistruttibile prova di ciò che gli era successo, per non passare da visionario al primo… collega che avrebbe incontrato.

Per quella casa di campagna, che, in tempi recenti, non poteva più nemmeno raggiungere, non potendo ormai guidare la macchina e nessuno lo accompagnava, quindi, dovette anche subire questo strano, ma giusto processo e, come tutti i processi, dall'incerto esito.

Lo assolsi, nel profondo rispetto delle norme, non concessi favori, lui ascoltò con rispetto la lettura della sentenza, quindi mi chiese se poteva attendermi per un caffè. Lo concessi, svestii la toga interrompendo momentaneamente (e con piacere) la udienza, andai a prendere il caffè con il vecchio professore da poco assolto; lui mi disse che era giusto così, che non si sentiva un favorito, perché aveva letto le carte.

Più avanti negli anni, una delle tante riunioni della Commissione giudicatrice del Premio di Poesia dialettale "Ciccio Carrà Tringali", indetto del Kiwanis Club Lentini, della quale fu superbo ed ispirato presidente per quattro edizioni, si svolse, appunto, nella già incriminata casa di campagna e là, io immeritevole presidente del club, mi chiese se mi ricordavo di quel processo; e come potevo mai dimenticarlo, fu la mia risposta immediata, un fatto simile non capita certo tutti i giorni.

Immagino che adesso egli si sia trovato al cospetto di ben altro Giudice e che Lo abbia guardato fissandolo con quegli stessi occhi che fissarono quel giorno il suo giudice temporale: non so immaginare le sorti del confronto né se per i suoi torti, ammesso che ne abbia avuti, sia stato perdonato, con conoscendo, io, le carte che abbia portato con sè nell'estremo viaggio; non so se stiano ancora ragionando, avendo certamente difensori di fiducia i suoi Leonardo Sciascia e Vanni Scheiwiller; né, infine, se quegli occhi, già rniracolati in un pio istituto romano, si siano davvero spenti per sempre.


* Questo articolo è stato pubblicato su "La Sicilia" di Catania, il primo agosto 2000