Un mito adulto *

di Antonio Di Grado


Se nella cultura occidentale esiste ancora l'Insostenibile, se sopravvive il Tremendo, se il simulato benessere e l'omertosa omologazione del nostro eterno presente non hanno ancora del tutto esorcizzato le intollerabili oltranze del sacrificio d'Isacco e del peccato di Edipo, c'è solo un evento, una situazione, una figura, che può ancora incarnare quell' orrore originario, devastare quelle finzioni e rivoltane il ripugnante sottosuolo, far tremare l'uomo sterilizzato del terzo millennio fin nelle sue viscere ancestrali.

Quell'evento atroce, quella situazione insostenibile, quella figura di scandalo è il suicidio d'un bambino. Un tabù che poche volte, quasi mai, la letteratura e le arti, pur così ricche di oltranze, hanno violato: e allora non sarà un caso se nel calvario dell'ultimo dopoguerra, in un breve volger d'anni, tre volte quell'interdetto viene infranto, e sempre con smisurate valenze simboliche. Penso al ragazzino tedesco che si slancia nel vuoto, dai ruderi d'un edificio bombardato, in Germania anno zero di Rossellini, "

penso a Mouchette che si lascia rotolare giù nello stagno, nel casto e dolente capolavoro eponimo di Bresson: immagini entrambe d'una sofferenza estrema, irredimibile, che affonda le radici negli orrori della guerra e della miseria, ma si leva fm nei cieli lividi disertati dal Deus absconditus.

E penso a Violetta. Violetta è il titolo d'esordio di Sebastiano Addamo, negli ultimi anni della temperie neorealista e del magistero di Elio Vittorini. E quel racconto si chiude con l'autodistruzione sacrificale d'una giovanissima vita, segno di scandalo sociale e d'irriducibile diversità antropologica. A quella diversità, a testimoniarla e a restituirle il suo valore di scandalo, è votata l'intera produzione di Addamo, è orientata la sua aspra e scabra meditazione. E perciò i modelli letterari (quel trascorrere da Vittorini a Sciascia che l'accomuna a tanti suoi coetanei e conterranei, e segnatamente a Consolo) e le suggestioni storiche (1' ideologia dell' engagement, gli "astratti furori" dell'intellettuale di sinistra inevitabilmente deluso), egli li brucia nella fredda fiamma d'un espressionismo feroce e spassionato, che è la cifra del suo leggere e scrivere, la vita. E perciò è piuttosto sotto insegne derobertiane, rispetto al verghiano Consolo, che Addamo si arruola e milita da scrittore, certo senza ignorare Brancati: e come avrebbe potuto, lui che dalla provincia gUadagnò adolescente la Catania brancatiana, e poi nuovamente la cercò e se ne illuse, ma ritrovandola immemore e inospitale, negli anni estremi? E tuttavia il brancatismo del capolavoro del197 4, II giudizio della sera, sapiente per tenuta stilistica e barocchi artifici, si ribalta e svela la natura, anzi, programmaticamente anti brancatina di ragioni ideologiche e scelte espressive spietatamente critiche e disperatamente nichilistiche: è una bruciante metafora, la Catania maleodorante del Giudizio, antitetica alla favola bella della Natàca odorosa di gelsomino e di zagara, d'indolente mitezza e di buone maniere; è una greve metafora, che traspira e condensa il degrado di questo mezzo secolo, che squilla e anzi stride come un allarme strozzato da un'urgenza lancinante; insomma è un anti-mito, o un mito adulto per chi abbia nervi saldi e fresca coscienza.

Come il giacobino e truculento Tempio aveva ripercorso, devastandoli, i tenui sentieri dell'Arcadia del Meli, così Addamo lacera i fondali e abbatte le quinte della Catania felix brancatiana per restituirei la Catania vera, splendori e miserie, come un compito e un ideale. E come il De Roberto de I Viceré (e si rilegga la spietata requisitoria contro il trasformismo - questa volta catto-comunista - de L’uomo fidato), l'autore de Il Giudizio della sera deforma lo spazio urbano del commercio civile e il tempo storico del millantato progresso nel grandangolo d'una implacata polemica, nel vortice d'una lettura della storia e della convivenza civile come degradata e degradante apocalisse, come immondezzaio di limacciose putredini e grottesche epifanie. Un' apocalisse ben più ampia e profonda del degrado d'una città e di un'isola: i veri maestri di Addamo vanno cercati, perciò, oltre i confini della mito grafia regionale. E si chiamano Gottfried Benn, Albert Camus, Paul Celan; e sono gli stessi che vigilano sull'impervia, cerebrale, alta poesia, del tutto scevra di "similitudine", delle raccolte II giro della vite e Le linee della mano.

Sempre più chiuso in questo suo ressentiment come in un orgoglioso bozzolo di preveggenza e rancore, Addamo ha vissuto gli ultimi anni assistendo, impotente, al tragico riflusso di quel disagio in malattia, al suo fatale esito nell' emarginazione e nella paralisi d'un opprimente, ineluttabile silenzio. A Catania si era trasferito, dalla Lentini della scrittura e dell'impegno, pensando di trovarvi il conforto di chissà quali cenacoli di sodali, di chissà quali occasioni di confronto. Nulla di tutto questo: solo rancori e divisioni, in un tetro labirinto di segregazioni. E sì che proprio lui, l'autore dell'impietoso Giudizio della sera, avrebbe dovuto saperlo.

Ricordo lunghi conciliaboli, io e lui soli negli inospitali saloni dei freddi alberghi isolani, in occasione del premio Savarese o del premio Borgese, intorno alla letteratura dei siciliani. E ai nostri scrittori, alla "corda pazza" che vibra nelle pagine di Lanza o di Fiore, di D'Arrigo o di Castelli. Dai suoi racconti, e dai suoi giudizi, trassi ispirazione e materia per il mio cimento teatrale del 1992, Casa La Gloria, espressionistica deformazione di quel microcosmo astioso e maniacale ma carico di disperata preveggenza. Era a lui che avrei dovuto dedicarlo; lo faccio ora, con gratitudine e rimpianto.

Anche tra chi gli ha voluto bene, più d'uno (ma è ancora di me che parlo) sconterà il rimpianto d'averlo lasciato solo, d'avere infine troncato un' amicizia viva e palpitante (perché grande era il risvolto di tenerezza di quest'uomo arcigno) per distrazione o, peggio, per disappunto. Devo dirlo? Mi offese un suo feroce articolo - uno dei suoi ultimi - sull' estate catanese, in cui ero coinvolto con la cieca passione di chi si scommette, di chi osa e rischia. Era solo un malinteso: guai a spendersi in politica, guai a restarne sdegnosamente fuori.

Troppo tardi per fare ammenda, e troppo tardi per saldare i nostri debiti, ora che in solitudine se n'è andato: solo sì e in silenzio, ma non da sconfitto, ché verrà il suo tempo; schivo sì ed esausto, ma, al pari di ser Brunetto, come "quelli che vince, non colui che perde".


 *11 presente articolo, tranne il titolo, è stato integralmente pubblicato su KALOS,

edito da Ariete, Palermo, nel numero 3, Luglio - Settembre 2000.