Ricordi e testimonianze


 

Matteo Collura

Ricordo di Sebastiano Addamo

Come per tanti altri scrittori e artisti è stato Leonardo Sciascia a farmi conoscere, di persona, Sebastiano Addamo. Ne aveva rispetto e ammirazione, sentimenti che automaticamente diventarono anche miei. Oltre alla cultura, solida sedimentata, ne apprezzai l'intelligenza, il ragionare da siciliano che, sì, spacca il capello in quattro, ma per uscire dal banale, dal folcloristico, dallo scontato.

Nel 1979 lo interpellai a proposito di un'inchiesta da pubblicare sul "Corriere della Sera Illustrato", dove si parlava della scuola e dei poeti che, maggiormente si studiavano in Italia. Le sue risposte m'incantarono, oltre a farmi i fare buona figura.            .

Come tanti altri scrittori, per guadagnarsi da vivere faceva altro, e cioè il preside, mi pare di ricordare in un liceo scientifico di Lentini, il paese in provincia di Siracusa dove nacque il filosofo Gorgia (particolare o coincidenza da non trascurare, dovendo abbozzare un profilo di Sebastiano Addamo).

Su mia istigazione scrisse e pubblicò sul "Mattino" di Napoli, scritti nei quali poteva dare sfogo alla sua vena di osservatore disincantato dei fatti della vita, oltre che alla sua sapienza di letterato costretto a vivere e lavorare in una zona marginale, tagliata fuori - così lui ripeteva- dalla è circolazione delle idee che non restano tali ma diventano fatti.

Ogni tanto ci si incontrava a Milano. E sono ricordi lontani, questi, di una lontananza che crudamente ci mostra quanto sia cambiata la società italiana, quanto sian1o cambiati noi e le nostre abitudini. Ci si incontrava e si parlava di libri. Addamo tirava fuori sempre qualche titolo, qualche autore a noi sconosciuti. Ed era un'imbeccata infallibile, ghiotta. Lo ricordo a cena, a un angolo del tavolo, coltivare i suoi silenzi o centellinare i suoi commenti.

Una delle ultime volte in cui ci incontrammo fu ai funerali di Leonardo . Sciascia. Poi più niente, perché d'allora gli scrittori siciliani non si sono più incontrati tra loro.


Giuseppe Bonaviri  

Addamo  fra gli aranci

Eravamo, credo, nell'estate del 1952 quando conobbi Sebastiano Addamo. Allora pur essendo già medico, (da poco di ritorno da Casale Monferrato dove avevo fatto il mio ufficialato di complemento come sottotenente medico), non possedevo nessuna autovettura. Fui accompagnato da un amico.

Ancora la Piana di Mineo non aveva avuto lo sviluppo davvero tumultuoso di trasformazione agraria ossia il passaggio da terre "frumentose" in giardini di arance e mandarini. Sicché, oltrepassate le macchie verdi di Palagonia, (cioè i coltivi di aranci là già presenti) e dopo aver attraversato i versanti nord di Palagonia, arsi e assetati, mi trovai sulla strada di Lentini, lo e Sebastiano ci scrivevamo, non ricordo bene perché: forse lui aveva letto il mio .Il sarto della strada lunga, uscito da poco nei "Gettoni" einaudiani diretti da Elio Vittorini,

Non ero mai stato a Carlentini, dove allora lui abitava, Già l'idea di passare per l'antica Leontini e pensare a Gorgia, il filosofo del "nulla esiste", mi entusiasmava. Le piaghe coltivate ad aranci là erano molte, estese, circondavano come barriera sia Lentini che la soprastante Carlentini. Questo grande verdeggiare mi dava allegria, contento di conoscere un giovane letterato che respirava quell' aria balsamica, ricca tra l'altro di antiche aleggianti memorie elleniche. Ci incontrammo nella piazza di Carlentini e ci trovammo subito affiatati perché tutti e due con attitudini (lui lo era come professore) alla filosofia, ossia al cercare una via che andava di là dal comune pragmatico correre. che è la vita.

Così seppi con piacere che lui scriveva racconti, romanzi, poesie, E che un suo lavoro era stato preso in considerazione per i "Gettoni" da Vittorini. Il quale allora per noi, poveri intellettuali che vivevamo in provincia, era davvero un gigante della cultura nazionale: i suoi romanzi, il "Politecnico", i suoi rapporti col Partito Comunista (illusione delle illusioni !), la già in vista polemica con Togliatti, Insomma, restammo amici. Così si creò un filo di "amorosi sensi" letterari che, nonostante passassero gli anni, si mantenne sempre fresco.

Fui contento e meravigliato per i risultati di scrittura e di fantasia ottenuti da Sebastiano quando lessi il suo libro Violetta, uscito in una coraggiosa collana diretta da Niccolò Gallo per l'editore Mondadori, il "Tornasole". Mi piacque molto la storia di questa Violetta che per amico aveva un rospo: e anche il secondo racconto "su un mostro", che già anticipava la letteratura dell'angoscia, oggi purtroppo ipertrofizzata, specie in USA.

Così, nei limiti del possibile e del mio lavoro di medico, (che si svolse dal 1958 in poi nel locale ospedale di Frosinone, dove noi assistenti avevamo turni massacranti), seguii Sebastiano sia nel suo lavoro critico, (due libri, se ben ricordo, uscirono con Sellerio), sia in quello di narratore. Ricordo Un uomo fidato, del 1978, in cui lui perseguiva un "gogolismo" siciliano sui generis. Inoltre lo conobbi nello splendore delle sue poesie, di cui menziono almeno La metafora dietro di noi e Il giro della vite. Lui con affetto e intelligenza si interessò di me, ne scrisse sui quotidiani, come "La Sicilia" di Catania o "Il Mattino" di Napoli; insomma, l' apprezzamento fu sempre reciproco. Lo vidi casualmente un'ultima volta alla Stazione Termini di Roma, quanto bastò per scambiarci idee, direi dei nostri progetti di lavoro, sorriderei a vicenda.

Certo, saperlo morto, (ma è il destino che investe tutti inevitabilmente), mi commuove. Comunque in lui la Sicilia ha un autore di elevata statura che mi auguro le nuove leve possano studiare in profondo per trame umori, spiriti, rigore nazionale e il grande affiato della sua scrittura.


Milo De Angelis   

 Il silenzio di Sebastiano

 Ho conosciuto Sebastiano Addamo nel 1977, mentre stavo preparando con gli amici della rivista "Niebo", un numero scenografico su Lucrezio.

Sebastiano attivò in via Rosales 9 insieme ad Enzo Di Mauro e ascoltò in silenzio la nostra lettura del poeta latino, romantica ed assoluta, come era nello stile di "Niebo". Poi, con voce scandita, lenta, marziale fece alcune osservazioni di grande acume m9strando la sua inclinazione per un Lucrezio ruvido ed essenziale. Come era lui. Questo ci colpì profondamente. Sebastiano sembrava una reincarnazione di Lucrezio: solitario, appartato, lucido, polemico. Anche irruente nella sua nota polemica! Però con un lato in ombra, da antico sapiente precipitato in un tempo che non è suo. Parlava per accenni, presagi, profezie.

E lasciava il segno con questa sua parola arcaica. Parola che pareva giungere alla luce dopo un'infinita gestazione, dopo un lungo percorso attraverso ciò che è muto. E ne conservava il tratto silenzioso: sì, una parola impregnata di silenzio, quella di Sebastiano Addamo, una parola da sopravvissuto, una parola vera che continuo ad ascoltare.


Silvana Grasso

Ricordo di Sebastiano Addamo

Conobbi Sebastiano nella sua casa di Catania un tardo pomeriggio di settembre, otto anni fa. Era un settembre caldo e lo scirocco di quel pomeriggio dissanguava uomini e strade. Un pomeriggio tardo e sonnolento che come il morso d'una tarantola paralizzava corpi ed energia.

Mi accolse nel suo studio, tra libri accatastati e ciurmaglie di fogli vaganti. M'impressionò il fresco e l'ombra di quello studiolo romito, ombroso, ignaro alle fanfare del mondo, proprio come Sebastiano.

Aveva letto le mie Nebbie di ddraunara; seppi molto dopo, da un suo articolo su "La Sicilia", che gli erano piaciute. Non parlava né si muoveva, immobile, rispettoso dell'immobilità della poltrona. Io, di fronte nella penombra, un'incursione di movimenti, un diluvio di parole, un torrente di domande. Mi guardava come si guarda una creatura sconosciuta alla biologia ufficiale, un essere di difficile collocazione nella specie umana e animale.

Altro, dovevo sembrargli altro... Non seppi mai cosa! Ma certo la mia primitività, quasi ferinità, doveva averlo sconcertato. Doveva essersi chiesto se fossi un felino o altro. Per due ore interminabili si sfidarono in duello, all'ultimo sangue, il suo silenzio, assoluto, e la mia inutile parola. Fui sconfitta e, per la prima volta nella mia vita, giudicai giusta e meritata la mia sconfitta e la sua vittoria.

Oggi che la mia parola pascola altrove, oggi che il silenzio è la mia nuova voce, vorrei incontrarlo, Sebastiano, in un tardo pomeriggio di fine estate, con lo scirocco a ustionarmi l'anima, a incendiare le basole del centro storico di Catania.

Vorrei sfidarlo con le armi del silenzio, certa ancora una volta di consegnare a lui, impareggiabile Maestro, le insegne auree della vittoria. Certa che, come allora, mi chiamerebbe al telefono, il giorno dopo, quasi a scusarsi dell'impari agone, dicendo appena "sono Sebastiano" e poi, solo silenzio…


Dacia Maraini  

Addamo, un uomo mite e gentile

Un uomo mite e gentile, questo è il ricordo che conservo di lui.

A conoscerlo, poi si scopriva che la sua mitezza non era arrendevolezza ma gentilezza di animo in un carattere tenace e deciso nelle sue scelte e nelle sue passioni. La scrittura per esempio, che era diventata centrale nella sua vita, lo teneva occupato come fa un amore nella vita emotiva di un uomo.

Lo ricordo giovane, minuto e miope. Abbiamo lavorato insieme ad una rivista letteraria che si chiamava "Tempo di letteratura" e veniva stampata dall'editore Pironti a Napoli. Sebastiano era un collaboratore ideale, attento lettore, appassionato scrittore, sempre pronto a incontrarsi con nuove idee, nuovi testi.    

Lo ricordo invecchiato, ancora più minuto e più miope.

Ricordo il suo passaggio a Roma, anni fa per una operazione agli occhi. Doveva essere il 1975, era l'anno della morte di Pasolini.. Mi ha telefonato che stava ricoverandosi.

Gli ho chiesto se avesse bisogno di qualcosa. "Una radio" mi ha risposto con voce timida e io sono andata a trovarlo in ospedale per consegnargli una piccola radio da tenere vicino al cuscino. Mi ha ringraziato con un sorriso gentile che sembrava dire "sapevo di potermi fidare". Anni dopo mi ha invitata a Lentini dove faceva il preside di un liceo scientifico che lui stesso aveva battezzato Liceo Vittorini.

Ho incontrato i suoi studenti, in una mattinata piena di vento che scarmigliava gli alberi e le idee. Poi siamo andati in giro per la città parlando di letteratura.

Mi ha confidato che il suo maggior cruccio era non potere leggere quanto avrebbe voluto, per via degli occhi. Eppure sapeva tutto sugli ultimi romanzi usciti, sulle novità di oltre oceano, sulle riviste letterarie che vanno per la maggiore.

L'ultima cosa che ricordo di lui sono delle telefonate: una volta l'ho chiamato io per dirgli quanto mi fosse piaciuto il suo testo narrativo sulla madre intitolato Le abitudini e l’assenza, pubblicato da Sellerio nel 1982. Ero stata colpita dalla freschezza della narrazione, dalla profondità degli affetti e dalla lucidità del racconto.

Un'altra volta mi ha chiamato lui per parlarmi della figlia Cettina che si era laureata e aveva trovato lavoro all'Intendenza di finanza a Magenta. "La vedrò poco" si rammaricava.

Sapevo che era molto affezionato alle figlie, Cetty e Vera. Sembrava contento di parlarmi di loro. Poi non t'ho più sentito e ho saputo da altri che era morto.

Ci vedevamo poco ma eravamo rimasti legati come possono rimanere legate due persone che si conoscono da giovani e vanno avanti nella vita tenendosi d'occhio da lontano.

Conservo il suo libro che ho amato di più, quello sulla madre, nello scaffale in camera da letto.


Paolo Martinez

 Ricordo di Sebastiano Addamo

Ero appena entrato nello studio, con l'intenzione di lavorare, quando lo sguardo è caduto su un libro di poesie di Sebastiano Addamo. L'evento ha subito acceso nella mia mente i ricordi: l'amicizia di Sebastiano, i momenti felici trascorsi insieme, la sua stima nei miei confronti nella qualità di pittore…, ma anche la malattia che ha bloccato ferocemente la sua attività creativa, ed infine la morte che spogliava familiari ed amici della sua presenza ed uccideva la speranza che essi tenevano celata di un suo prodigioso ritorno.

E stato nel lontano 1978, in occasione della mia personale di pittura presso la galleria dell'editore Vito Cavallotto, che conobbi Sebastiano Addamo, presente all'inaugurazione. Al termine della serata, contento del successo ottenuto, pensai di invitare a cena Cavallotto, Addamo e Santi Bonaccorsi (il giornalista, scrittore che mi aveva presentato il catalogo).

Una serata indimenticabile! Si rideva e si scherzava durante l'interminabile conversazione che passava dagli argomenti culturali (incentrati soprattutto sulla pittura e sulla poesia) all'elogio dei cibi, cucinati da Angela, mia inseparabile compagna, utilizzando i prodotti "biologici" del nostro piccolo orto, naturalmente il tutto con il bicchiere sempre pieno e sempre vuoto.

Quei momenti hanno siglato l'inizio di una lunga amicizia con Sebastiano, amicizia cementata dalla stima reciproca e che solo la morte ha potuto spezzare.

Non sto qui ad elencare le capacità intellettuali di Sebastiano, il suo valore di saggista, di poeta e di scrittore perché ufficialmente note, ed anche per evitare di cadere nell'ovvio; comunque è certo che il sogno di costruire una casa-rifugio, dove realizzare le mie opere pittoriche e dove creare un centro culturale, casa che, alla mia morte, custodisse, quasi museo, ogni realtà da me creata e servisse da esempio a nuove generazioni, ha avuto l'avvio con il supporto di tale prestigiosa amicizia. Sebastiano era un carattere introverso, di non facile approccio; ma quando instaurava un rapporto di amicizia si apriva completamente e il suo volto, che esprimeva gioia, mostrava degli occhi di un verde luminoso quasi a voler sottolineare la sua disponibilità verso l'interlocutore.  Ripenso al momento in cui accettava la sfida lanciatagli di leggere le mie opere di critico ed al momento in cui mi consegnava le pagine dove era segnato il suo pensiero, quasi fosse un atto di liberazione: sapeva che non cercavo elogi, ma analisi critica.

Conservo gelosamente quel pezzo che fino ad ora ho mantenuto inedito come se riguardasse un fatto intimo e non Una lettera sulla mia arte pittorica. Posso considerare che quel giorno Addamo assieme a Bonaccorsi, (per me Mimmo), abbia fatto si che la mia casa si avviasse a divenire un centro di cultura.

    Si sono succeduti infatti nel tempo ospiti quali Vrncenzo Consolo, Dario Bellezza, Pietro Cimatti e tanti giornalisti, e altri scrittori e pittori....

Nel settembre del 1998 è nata, promossa dai miei amici, l'Associazione Culturale "Il Ragno": essa ha sede culturale presso la mia casa-studio, ed io ne sono il presidente. Scopo di tale associazione è quello di diffondere la cultura, in senso lato, e la conoscenza della pittura, in particolare. Tale realtà segna  lo stadio evolutivo del progetto iniziale.


Giuseppe Miligi

 Testimonianza di un amicizia leale e sincera

 

   Prima ancora che lo incontrassi, Addamo mi era noto come saggista per  uno scritto che aveva destato in me interesse e consenso.

   Si tratta, però, di un lontano ricordo che non saprei meglio precisare.

   Di persona l'ho poi conosciuto nel 1973, a Catania, quando fu nominato commissario per la filosofia in una commissione di maturità classica da me presieduta, che esaminava gli alunni di una sezione del Cutelli e quelli del liceo di Caltagirone.

Nella seduta preliminare, prima ancora che io potessi rivolgere un saluto ai convenuti, Addamo prese la parola per sollevare un principio che era, in fondo, una protesta.

Aveva torto e glielo feci toccare con mano; ma colsi anche l'occasione per parlargli di quel suo saggio che tanto avevo apprezzato. Ne fu toccato (ed un po' mortificato): da questo "incidente"; prese inizio la nostra amicizia che (nel reciproco rispetto delle personali opzioni ideologiche) fu piena e senza riserve.

L'articolo che scrisse per "L'Ora" dice dell'affetto e della stima di cui mi ha gratificato con parole che certamente vanno ben oltre i miei meriti, ma colgono nel segno quando dicono dell'amore che porto alla poesia ed alle cose della cultura e soprattutto quando accennano alla mia pigrizia.

Nelle pieghe e nelle pause dei nostri lavori ebbi modo di parlargli della poesia di Bartolo Cattafi che conosceva poco. Gli diedi a leggere i suoi testi e ne rimase letteralmente abbagliato.

Mi pregò di procurargli un incontro col poeta. E dopo gli esami, in pieno solleone, lo portai da lui, nel suo buen retiro di Mollerino, in agro di Terme Vigliatore. Vi trovammo, ospite, il mio amico editore Vanni Scheiwiller: e così ebbe anche modo di fare una conoscenza che nel tempo si rivelò preziosa per lui.

Nel tempo: ma, nell'immediato, il Nostro fece del suo meglio per complicarsi l'esistenza. Complice una micidiale mistura di birra gelata e whisky di cui, a placare l'arsura agostana, Bartolo aveva cura di tenere sempre colmi i nostri bicchieri, il buon Sebastiano diede libero sfogo al suo istinto aggressivo e si produsse in una specie di buffa caricatura verbale dell'editore ("abatino pariniano in sedicesimo") irritando molto il padrone di casa ma divertendo moltissimo il suo ospite che nell'occasione, a ricambiargli la cortesia, coniò l'epiteto per il quale poi Sebastiano Addamo fu sempre per noi tre (Bartolo, Vanni e io) "il lupo dell'Etna".

Risultato di quell'incontro fu l'articolo de "L'Ora" che, pur incondizionatamente positivo per quanto concerne la qualità della poesia cattafiana, non coglie nel segno quando tenta l'interpretazione dei valori che la fondano. La tendenza "professionale" al raziocinare, per via filosofica, tradì il critico e gli impedì di vedere che il pessimismo del poeta non era né radicale né assoluto. Investiva sì la storia e la società, ma non pure la natura ed il destino dell'uomo. Quello di Bartolo era piuttosto rigorismo etico con qualche sfumatura "giansenistica": qualcosa che in certa misura lo avvicinava a Carlo Bo (non a caso, il critico che 'prima e meglio di ogni altro comprese e scrisse della sua poesia).

Molto meglio andarono le cose con Vanni Scheiwiller.

Ricordo al proposito un episodio significativo di cui sono stato testimone e che dimostra come, del "lupo", Addamo avesse non tanto l'istinto aggressivo (che, a mio avviso, era spesso maschera della sua timidezza) quanto, piuttosto, il fiuto infallibile.

Ero presente quando, raccontando a Vanni - sotto la cui sigla editoriale erano apparsi i suoi Mandarini calvi - di un noto letterato che militava nel suo stesso partito e che lo stava redarguendo perché aveva pubblicato il romanzo con un "editore elerico-fascista, laureato alla Cattolica, amico di Indro Montanelli e di Edilio Rusconi" cosi concluse il discorso: "Ad un certo punto mi resi conto che a muovere il mio interlocutore era l'invidia, e così, tirando ad indovinare, gli dissi di sapere di una tua rubrica, folta di nomi di scrittori di sinistra che si erano rivolti a te senza successo. Lo vidi farsi pallido: che abbia colto nel segno?"                                                               I

Aveva proprio colpito in pieno il bersaglio. Vanni gli confermò che quel suo "amico" puritano si era rivolto a lui per la pubblicazione di un suo lavoro e ne aveva avuto un "cortese rifiuto!"


Domizio Mori

 Ricordando Sebastiano Addamo

Di ritorno dal Brasile, dove avevo fatto, invitato dal direttore Pier Maria Bardi, una personale al Museu De Arte, volevo mostrare anche in Italia le opere che erano state accolte con favore e recensite dal maggior quotidiano del Brasile, "Folhia de Sao Paulo".

Presentai parte delle stesse, che facevano parte del ciclo intitolato Cieli e Farfalle, in una galleria di Milano, la Galleria Vinciana.

All' inaugurazione erano presenti molti critici, tra cui Riccardo Barletta, Rossana Bossaglia (ne parlò poi sul Corriere), Sebastiano Grasso, Mikiòs Varga. Prese la parola Sebastiano Addamo, letterato-poeta, che collaborava alla rivista che curavo, "Rassegna Artistica-Culturale" della Fondazione Lorenzini. Alla mia richiesta, venne cortesemente apposta dalla Sicilia e nella sua esposizione, con quella calda e autorevole voce che possedeva, rilevò assonanze e differenze tra la mia e la sua arte:

"... Sia per me che per Mori la farfalla è vita e morte contemporaneamente, ma con questa differenza. Essendo io un solare di provenienza, guardo, diciamo così, la vita dentro la morte. Mori, al contrario, guarda la morte entro la vita ..."

Quell' occasione gli ispirò un poemetto intitolato Farfalle, che introdusse una pubblicazione in tiratura limitata, con riproduzione delle mie opere, edita dalla "Vinciana". Il poemetto venne pubblicato poi nel volume di poesie Le linee della mano, edito da Garzanti nel 1990, con l'espressa indicazione dopo il titolo "Per alcuni dipinti di Domizio Mori".

Ero orgoglioso della sua amicizia. Da alcuni anni non si faceva sentire e seppi solo ultimamente della malattia invalidante durata parecchio - che spiegava il silenzio - e che lo portò alla morte.

Durante un mio soggiorno a Marrakech, lessi il commento di Collura che lo ricordava sul "Corriere della Sera". Ne fui addolorato, come per un' insostituibile perdita.

Mi vengono in mente alcuni versi del suo poemetto:

". . .L' Assenza /apre spiragli, è mobile e dolorosa. Il Nulla in via di / essere. / O ciò che è stato, il ricordo che spacca il tempo e lo / trattiene..."


 Sergio Palumbo -

Le due facce della Sicilia secondo Sebastiano Addamo

Ricordo dello scrittore catanese nel trigesimo della morte

 

Cammina con una sua cartella gonfia di carte e appunti, quando può, anche nel mezzo di una conversazione, vi sbircia dentro, rilegge, aggiunge qualche frase misteriosa in una grafia netta e nervosa; l'aria un po' svagata e l'andatura dinoccolata; l'aspetto timido e modesto, da impiegato medio, anonimo e subalterno".

Ecco come Sebastiano Addamo "dipinge", in un ritratto assai efficace, Vanni Schelwiller, dalle cui edizioni "è transitata - aggiunge subito dopo lo scrittore catanese -la letteratura italiana del Novecento"'.

Mi piace ricordare così Addamo, accanto a Scheiwiller, due uomini di cultura e amici che purtroppo non ci sono più: l'uno ad un mese esatto dalla sua morte; il secondo ormai a quasi un anno.

Singolare coincidenza, ma anche il personale incontro epistolare con Addamo fu propiziato in un certo senso da Scheiwiller. A cura di chi scrive vennero pubblicati, infatti, dall' editore milanese i carteggi di Montale e Vittorini con Salvatore Pugliatti. Addamo sconosceva tali corrispondenze e fu per lui quindi una rivelazione: "Mi ha interessato il suo saggio per le notizie di prima mano e, comunque, per me inedite, su Montale che ignoravo. [...] Le sono davvero grato, dato che non si tratta di informazioni sul privato, bensì intorno a un privato che ha notevoli risvolti pubblici".

Di Addamo, nessuno ch'io sappia, nel parlare della sua opera di scrittore e poeta all'indomani della scomparsa, ha menzionato un delizioso volumetto scheiwilleriano, pubblicato nove anni orsono - ma suppongo già una rarità bibliografica - intitolato Racconti di editori. E' un Addamo meno impegnato e impegnativo rispetto ai suoi saggi, ai suoi romanzi e alle sue raccolte di versi quello che emerge dalla lettura del suddetto libro, dove lo scrittore rievoca brillantemente figure di editori e intellettuali legati all'ambiente editoriale a cominciare appunto da Vanni Scheiwiller passando poi in rassegna Salvatore Sciascia, Livio Garzanti, Elio Vittorini, Vittorio Sereni, Leonardo Sciascia ed altri ancora.

Direi che qui si scopre, in un certo senso, un Addamo nuovo, o forse, meglio, un Addamo fuori dallo schema che si era soliti fare di lui, vale a dire di uomo riservato e intellettuale severo, che amava comunicare quasi esclusivamente attraverso gli scritti, affidando le sue riflessioni morali e i suoi interventi critici a libri e ad articoli di giornali e riviste anziché nei pubblici dibattiti, nelle occasioni letterarie mondane, nelle ribalte televisive. Tutto questo, certo, gli ha nuociuto sul piano del successo immediato, anche perché la sua è sempre stata una scrittura difficile, ad alto tasso filosofico, che bene riflette sul piano dei contenuti una pessimistica visione esistenziale del mondo.Quando si fanno i nomi degli scrittori siciliani più in vista del secondo Novecento, il suo, di norma, non compare. a fianco di quelli di Sciascia, Bonaviri, Bufalino, Consolo e D'arrigo.

   D'altra parte, lui stesso mi confidò in un'intervista (Per un nuovo linguaggio poetico, "Gazzetta del Sud", 14 novembre 1990) che attraverso i suoi romanzi "non cercava un pubblico, ma cercava di trovare, di tanto in tanto, qualche lettore".

Ciononostante Addamo, che pure ha pubblicato poesia e narrativa con prestigiosi editori (da Mondadori a Garzanti, da Scheiwiller a Sellerio, da Guand a Sciascia), al pari di altri scrittori isolani "sfortunati" anche se di sicuro valore come Antonio Pizzuto e Angelo Fiore, merita di essere annoverato tra i maggiori rappresentanti della letteratura siciliana contemporanea. .

Perfino il suo tributo all'insularità, tanto caro agli scrittori siciliani, non è stato minore rispetto a quello manifestato da più celebrati conterranei, anzi forse proprio a Sebastiano Addamo si deve, condensato in poche righe, una delle più liriche e riuscite immagini d'insieme del continente Sicilia.

"A chi vi giunga da nordità brumose e ordinate, la Sicilia non può che apparire una escrescenza arroventata, un cisposo punto di fuoco, fosco, mosso, spettacolare e dialettico, cangiante e diverso nei colori, un irto e vasto scoglio tra Europa e Africa, e pare quasi sentirne lo sfrigolio in mezzo al mare perenne.

Incombente vi è la montuosità, essa schiude un paesaggio o rovescia in primo piano le sue rocce disordinate, brune, massicce, di cui neppure la umbratilità dell'acquarello riesce a mitigare l'asprezza. [...]

Un dualismo elementare governa la Sicilia e la esprime, non soltanto tra il bruno metallico della pietra e il suo aprirsi al verde degradare nell' azzurro del mare; ma riguarda il suo stesso essere, l'incrocio di razze e di civiltà, i modi di pensare e di agire. Se la insularità è il suo connotato immediato (e la distingue da tutte le altre regioni meridionali), poi si scopre che tale insularità, se delimita e circoscrive, in realtà contiene una multiformità non determinabile" .

 

 Si riproduce qui fedelmente, salvo che per il titolo, l'articolo "La Sicilia e l'nsularità di Sebastial1o Addamo ", in "Gazzetta del Sud",

Il agosto 2000, pag.14.

 


Antonio Spagnuolo -

Sebastiano Addamo 1925 - Ricordo di un gentiluomo

 Se il suo sguardo fosse rimasto solamente cauto, dico prudente con qualche predilezione per l'accidentale e l'occasionale, sarei stato più tranquillo. Invece era soltanto fermo, vi stagnavano luci che a intermittenza le auto aprivano, rifletteva persino il piegarsi d'un filo d'erba. M'accorsi che se solo fossi "riuscito a intrappolare appena"uno di quei tortuosi passaggi di cui ogni storia è fatta; se solo fossi riuscito a fermarmi l'occhio in un momento di distrazione, avrei riguadagnato tutto. Non fu così. Ogni vita ha il suo compimento" (La metafora dietro a noi - ed. Spirali 1980).

Cercai di distogliere l'attenzione da quel suo sguardo stranamente indagatore, profondamente cattivante, quasi stesse cercando la mia occasione di interVento, per comunicarmi qualcosa che era rimasta sospesa fra di noi da moltissimi anni. Ma io non conoscevo ancora quel personaggio, elegantemente trasandato, grigio nel volto, affascinante come un guru di una setta ignota, sapiente quant'altri mai, con i segni nel viso di passate sofferenze, o di un impegno morale e culturale di non indifferente carico.

Due occhi - erano quelli da un tavolo in controluce, verso la vetrata grande del salone - due occhi apparentemente stanchi, affaticati, che mi interrogavano, invitandomi ad accostarmi senza tema.

- "Lo sai - mi disse a bruciapelo - che io sono debitore verso di te di almeno due segnalazioni...

Tu sei Antonio... da Napoli? Io sono Sebastiano Addamo..."

      - "Finalmente posso conoscerla di persona! Sapesse quante volte mi son chiesto dove poterla incontrare...".

      - "O mi dai il tu, o è meglio che ti allontani!"

      Da quell'incontro una formidabile attrazione mi trascinò entro i suoi giochi involontari, attraverso le schermaglie letterarie, che egli sapeva gestire con la maestria dell'uomo dotto, del saggio che ha vissuto come protagonista del libro, per addolcire le asprezze della carriera, le acide maldicenze degli pseudo intellettuali, o per sognare, amante delle contaminazioni, degli ibridi, dei sincretismi, in una forma astratta di romanzo, che si rivelava in una dimensione sorprendente di musicalità.

La volontà di spiegare agli altri e a sé stesso le posizioni ideologiche, o le stranezze della scrittura, o le corruzioni concettuali che si vivevano in quegli anni, traspariva dai suoi discorsi, con una sincerità ed una semplicità prestigio sa, quasi che le parole riuscissero ad offrire dei rimaneggiamenti ritmici, restaurati, verniciati, incorniciati.

Trasmetteva con grande delicatezza il suo "odio per i tradimenti", da ottimo siciliano, ed il suo fervore per la vera amicizia, mai contaminata dalla ipocrisia, diveniva l'obbligo di una rivolta estetica, idillio moralizzatore tra il raziocinio ed il barocchismo ludico.

Come per incantamento egli rigenerava i vocaboli in una faconda autocombustione, e piano piano trascinava il discorso verso mille citazioni profumate, dove ogni parola minacciava diluvi o definizioni incontenibili.

C'era in gioco una pulsione orale di così compita fattezza e di così forbita costruzione, che rimanevi illuminato anche dalle piccole sottigliezze che ornavano il pensiero. Impastato nelle sue metafore il senso plastico dei fatti, delle persone, degli avvenimenti culturali veniva cotto al calore della sua immaginazione di poeta, o profumato dalle spezziate sonorità del linguaggio, tutto echi e rimandi, infilzati uno dietro l'altro come perle di una collana invisibile.

Ottimo maestro dei silenzi, tra i luoghi e la consapevolezza dell'esistenza di un inesprimibile "dolore" collettivo, che dona lucidità utopica e critica a chi del silenzio avrebbe voluto vedere cancellato l'orlo sospeso della morte, egli, per una sorte di illuminata capacità di suggestione, semplicemente maschera presente in quel grande teatro che è la nostra possibilità di "dire", riusciva a rappresentarlo in una recitazione provocatoria e reattiva, Più di una volta fulminava con incisi e metafore.

- "Anto', vedi quel bellissimo orologio a pendolo? Ti posso garantire che è un orologio precisissimo, peccato che si è fermato per sempre su quell'ora".

    Guardai il quadrante, incuriosito, e le lancette erano ben visibili sulle ore sei e trenta.

    Una volta per cercare di troncare una conversazione che forse non gradiva, mi guardò di sottecchi e disse ad alta voce:

    - "Anto', vogliamo far comprendere che è finita la carta per scrivere?"