Quaderni  1 98.jpg (203118 byte)

TESTI LETTERARI

Quaderni 1. 98

semestrale del 

"FONDO MORAVIA"


 

INTRODUZIONE

 

Apriamo la sezione letteraria con due testi - un breve racconto, e una lunga e appassionata riflessione sulla posizione  dello scrittore e  dell'intellettuale siciliano - di Sebastiano Addamo, al quale venne attribuito il "Premio Alberto Moravia" di narrativa italiana nel 1995. Coloro che ne conoscono l'opera ritroveranno, in questi testi scritti nel corso degli anni passati, la densa e acuta scrittura di un autore che della Sicilia profonda ha così bene espresso l'esistenziale e travagliata essenza. " E' il mondo siciliano -  ha scritto Dacia Maraini nella motivazione del Premio - a nutrire l'immaginazione di Addamo, a irrompere in un linguaggio dentro il quale un'intelligenza insieme sulfurea e analitica  si inllimpidisce per una mai spenta devozione nei confronti della ragione".


LE FRONTIERE E LA CONDIZIONE DELLA LETTERATURA PERIFERICA

1. La Sicilia ne ha parecchie: sono inesistenti ma tenacissime. Il mare, che per i greci stabilì quelle comunanze che le asperità dei luoghi non favoriva, per i siciliani resta lontano, semmai un posto secondario da attraversare. Per Pirandello era il luogo dove approdavano le navi che venivano a caricare lo zolfo. E né Vitaliano Brancati né Leonardo Sciascia fanno di esso un luogo di azione umana. Brancati, ne fa un accenno in Piccolo dizionario borghese, scritto assieme a Leo Longanesi. Alla voce corrispondente, viene trascritto un modo di dire: «il mare mi snerva».In Sciascia, qualche suo personaggio verrà trasportato per mare, ma per arrivare in Spagna dove si svolgerà l’azione. Nel racconto Il mare colore del vino, viene sviluppato un tragitto in treno: Roma-Catania; al posto del mare si parlerà del petrolio che da Gela viene «succhiato» fino a Milano.La Sicilia resta il luogo dove si arriva, non da dove si parte. Quando Giovanni Percolla, il protagonista del romanzo Don Giovanni in Sicilia ritorna dal suo tragitto che lo ha portato a Roma e Milano, il gesto che gli fa compiere Brancati è quello di stendersi sul letto: «il materasso si apriva sotto di lui in modo che egli sprofondò tiepidamente fra due onde di lana».È ritorno alla terra, alla madre, rientro nell’alveo da cui si è stati strappati. Lo scrittore Stefano D’Arrigo, conclude in pochi versi di Codice siciliano, il suo viaggio, del resto mai avvenuto:«A questo punto del viaggio, Sicilia, / non siamo mai partiti, siamo attorno / a un fuoco d’inverno, in un familiare / odore di miele e di fichidindia»: la Sicilia,

il  suo paese di Alì, la madre, sono i termini di questo viaggio che circonclude il mondo, vicenda insieme esistenziale e poetica trasfigurata nel mito.

 

 2. In realtà, gli scrittori siciliani sembrano seguire il tragitto medesimo che si è sempre verificato, rispetto alla Sicilia: attraverso il mare, si perviene dentro l’isola, dove ci si ferma.

Tuttavia, se il mare viene sfuggito, la terra separa, innalza muri, crea stecca­ti insormontabili. In Nero su nero, Leonardo Sciascia aveva inserito un breve testo che sta tra il pezzo di colore locale e il grottesco, ma che va oltre l’aneddoto:«Il contadino che a Roccapalumba sale sul treno che va ad Agrigento, per tre volte, a tre persone diverse, domanda se il treno va ad Agrigento; e per tre volte ottiene la stessa risposta: “Almeno...”. La terza risposta viene addirittura da un ferroviere: e allora il contadino si rassegna al dubbio. Nessuno è certo che il treno vada ad Agrigento...».Almeno significa: in tal modo è stato detto, però non si sa mai; può capitare qualcosa che faccia deviare il corso delle cose, e a maggior ragione il corso di un treno. Qualcosa del genere mi era capitato, anni prima sul medesimo treno. Andavo a Racalmuto a trovarmi, per la prima volta, con Leonardo Sciascia. Il testo lo aveva letto nel 1979, l’anno della pubblicazione con Einaudi. L’incontro era stato propiziato da Elio Vittorini, da Milano. Il treno era affollato. Ricordo che chiesi informazioni, ricordo che ricevetti diverse risposte, s’intrecciò perfino qualche conversazione. Però non ebbi risposte precise. Fatto sta che scesi alla stazione successiva. Mi inoltravo nel mondo dell’oscurità. Si era intorno al 1956. Era il tempo in cui la Sicilia sembrava irraggiungibile per gli stessi siciliani: tempo di strade contorto e polverose, di solitudini acciecanti, di comunicazioni difficili. Il testo di Sciascia mi parve la riprova di questo difetto comunicativo, segno di perenne insicurezza e confusione semantica che esprime precarietà e labilità. Il caso e l’incertezza vi assumono, perciò, la compattezza impenetrabile della fatalità. La collocazione della Sicilia al centro del Mediterraneo, ne ha fatto terra di conquista e di dominazioni. Vi sono arrivati, transitando dappertutto, romani, lombardi, liguri, piemontesi, francesi, spagnoli, pirati algerini e berberi. Si sono generati linguaggi, culture, modi di essere, che isolano la Sicilia dentro se stessa, generano stupore ed estraneità; separano. Da ragazzo vivevo in una zona tra Catania e Siracusa. Sentivo parlare delle pratiche di sodomizzazione a cui erano costretti i «carusi» che lavoravano nelle miniere di zolfo della Sicilia dell’interno. Mi pareva un luogo lontanissimo e inarrivabile, quasi barbaro? Molto tempo dopo, attraverso i libri dello storico Francesco Renda, imparai che lungo l’Ottocento vi era stato perpetrato un vero e proprio «genocidio».La linea dello zolfo, tra Enna, Caltanissetta, Agrigento, ha stabilito demarcazioni nette e terribili. Lì ha avuto una delle sue radici prime e nefaste il fenomeno della mafia, nato probabilmente dalla necessità di una solidarietà fino alla morte.

 

 3. Alexis de Tocqueville, nel volumetto pubblicato da Sellerio e intitolato Viaggio in Sicilia, compiuto intorno al 1826-27, scorge alcune rilevanti differenze:

risultano dai costumi, dalla lingua, dalla diversità di insediamenti.

Inizia il viaggio partendo da Palermo, attraversa le solitudini abbandonate e aspre dei feudi, giunge a Catania, sale sull’Etna, ammira — dice — «una di quelle bellezze severe e terribili della natura», contemporaneamente rilevando l’affanno laborioso, il tramestio che caratterizza la zona etna rispetto alla cupa desolazione del feudo; vede i frutteti rigogliosi, la smaglianza dei colori, il rigoglio dei campi. Tale «prosperità locale» egli la fa risalire all’Etna, alla sua forza distruttiva, la quale indusse i patrizi possidenti e le corporazioni dei monaci, ad abbandonare le loro terre, che perciò vennero occupate dai «senza terra», come li chiama.«L’unica parte della Sicilia dove il contadino è possidente» riflette il de Tocqueville. L’Etna, in tal modo, promuove una vera e propria riforma agraria, la quale, a sua volta, viene a implicare diversità di situazione abitativa, un modo di vivere e di comportarsi della gente in forme più libere e più ardite. La frantumazione dei feudi nella Sicilia orientale produce modificazioni in tutti i celi sociali, compreso il patriziato. Il quale ultimo avvertendo una propria perdita di ruolo, si movimenta anch’esso verso l’esercizio delle professioni, riconosce il lavoro. La nobiltà palermitana, perduta nel groviglio silenzioso delle latitudini dei feudi, rimane invece statica. Ancora all’inizio di questo secolo, essa resta chiusa nei suoi palazzi pieni di arazzi e di quadri; la sua attività la risolve dandosi alla pratica delle scienze occulte, alla magia, sia nera che bianca. Ne è investita pure la famiglia Piccolo che vive nella splendida villa di Capo d’Orlando, sia Lucio, che è poeta, ma che vi partecipa con una certa nonchalan ce, sia Casimiro, che è fotografo esperto e anche pittore, ma con maggiore adesione. Probabilmente, Giuseppe Tomasi, ne Il gattopardo, quando contemporanea­mente allo sbarco garibaldino fa salire il suo personaggio sulla torre a proseguire i suoi studi di astronomia, non aveva di mira il Risorgimento, ma più pensabilmente, e con ironia, il proprio ceto di appartenenza, che si rivolgeva ad attività così metafisicamente astratte senza riuscire a guardare il mondo che finiva; anzi, per evitare di guardarlo. Contemporaneamente, il nobilato palermitano ebbe a praticare la morfina. Nel libro pubblicato da Sellerio nel 1988, Il principe mago (storia di un nobile che a causa di grosse perdite al giuoco, decide di tagliare con la vita che conduceva; si ritira in una casa che era dotata di un ricco giardino, si dà allo studio della entomologia, però rifiutando la cattedra che l’Università di Palermo gli offre ripetutamente. Poiché in questo ceto c’è pure una sovrana capacità di dispendio di sé), il suo autore Ben Parodi, informa che era stato un medico a introdurla per curare l’a­sma di cui pare soffrissero le nobildonne. A me, queste due vicende sembrano aspetti di una metafora reale: l’astrazione, da un lato, e l’ebetudine, dall’altro e nella quale questa gente si esauriva, mi sembrano metafore di morte, una inclinazione verso l’immobilità e verso la indifferenza; verso la inesistenza.

 

 4. In fondo, il romanzo Il gattopardo, non è a ben considerano, che una celebrazione della morte e del disfacimento. La nevrotica risata con cui il protagonista principe Fabrizio accoglie la notizia che il Sedara (cioè l’esponente volgare del nuovo ceto borghese) sta salendo in frak le scalinate del palazzo, non è solamente una risata, ma l’avvertimento di una agonia giunta al suo punto finale. Nel Gattopardo viene rappresentata la morte «storica» di un ceto e di un mondo, e insieme, la morte esistenziale degli uomini di quel mondo. È un romanzo della fine, nei modi del suo autore. Nel suo tempo, tuttavia, venne considerato «libro di destra», e non si fece in tempo a valutarne le valenze letterarie e culturali che potessero concorrere a dare diversa valutazione della let­teratura siciliana: venne considerato opera isolata di uno scrittore isolato. Adesso è lontano come una reliquia.

 Si dice che lo scrittore palermitano, Angelo Fiore, anche lui scrittore di disfacimento, abbia sfiorato Giuseppe Tomasi. Cioè, andava a vederlo nel bar che il Tomasi usava frequentare. Fiore, seduto a un tavolo, stava a fissarlo. Forse aspettava il verificarsi di qualche evento che propiziasse l’incontro. Ma questo non avvenne. L’impaccio di Fiore lo impedì, e impedì che una inavvicinabilità, direi ontologica, del Tomasi, si risolvesse. Questo incontro tentato ma mai avvenuto, l’avvicinamento di due isolamenti, mi sembra una parabola, ma dove tutto rimane sospeso. Non importa se il libro di Tomasi, pubblicato postumo, abbia avuto largo successo; non importa se per Angelo Fiore sia stato tentato di procurargli la notorietà che non gli era stata mai riconosciuta (ma sempre dopo la morte).Entrambi restano due isolati, in realtà fuori del loro tempo. I loro libri hanno tentato di incrinare, dall’interno, il surrettizio ordine delle cose, contrapporre la riflessione sulla morte, o il dileggio sarcastico, verso un mondo che pareva avviarsi verso la razionalità e il progresso.

 

5. E c’è Giovanni Verga. Verga, più impetuosamente introduce la diversità dentro lo spirito di omologazione letteraria. Oltrepassa una frontiera, ma resta imprigionato dentro di essa. Resta — per il suo tempo — un minore, o al massimo un subalterno.«Una letteratura minore» scrivono Gilles Deleuze e Felix Guattari, «non è una letteratura di una lingua minore, ma quella che una minoranza fa in letteratura.»Quella di Verga è la letteratura di un altro mondo, adopera una lingua che non è, nella sostanza, dialettale, ma adotta i ritmi e la scansione di una parlata e le caparbie regole morali di una comunità aspra come quella siciliana.Perciò si condanna allo scacco e all’isolamento.

«Esule dalla fama» ebbe a denominano Luigi Russo nel saggio del 1919. Rimase a lungo un maestro non letto.

 

 6. Intorno al 1925 Italo Svevo scrisse, già da vecchio, un racconto lungo intitolato Corto viaggio sentimentale. Otto anni più tardi, nel 1933, Vitaliano Brancati ne scrisse uno altrettanto lungo, Singolare avventura di viaggio. A parte le differenze cronologiche, c’è una coincidenza significativa, anche se del tutto casuale.La periferia viaggia, si può dire. Viaggia e non arriva mai; o probabilmente, giunge nel posto sbagliato. Scende e risale, verso un luogo, un centro che non si trova, e forse non c’è. Poi si vede che il centro è dappertutto e la periferia in nessuna parte; o che non c’è alcun centro, e tutto è periferia.È capitato con Leopardi e anche con Carlo Michelstaedter. Questi va da Gorizia a Firenze. Nel 1907 in una poesia parla delle «acque melmose» dell’Arno; delle nebbie di San Miniato «avvolto nella nebbia / come nell’ombra».Ma quando ritorna a Gorizia, non è per continuare l’opera iniziata, bensì per dar corso all’evento che rende impossibile tutte le possibilità. Scrive ancora qualche altra poesia, ma si vede che ormai è giunto a conclusione estreme. «Tutta è la vita arida e deserta, / finché in un punto si raccolga in porto, / di se stessa in un punto faccia fiamma». La poesia, Onda per onda batte sullo scoglio, è dell’agosto 1910; alla fine dello stesso anno, Michelstaedter si suiciderà. I protagonisti dei due racconti, di Svevo e Brancati, nei loro tragitti e stazionamenti, pensano, o sognano, ma mostrano di non riuscire ad aderire alle cose che fanno. Sembrano guardare se stessi dall’alto e dal di fuori. Insomma, si vedono vivere.Nei due viaggi non accade nulla; o forse accadono alcune cose che però alla fine si vede che non hanno importanza.

«Avviene... che la vita passa» dice un piccolo personaggio brancatiano, con solenne banalità.«Addio sentimento della libertà del viaggio» medita alla fine il protagonista del racconto di Svevo, quel signor Anghios, che è ironico e inetto. Ha riflettuto sulla questione della libertà senza cavar nulla. Il protagonista del racconto di Brancati, Enrico Leoni, riflette sulla legge morale, intorno a Dio e a Gesù Cristo, addirittura avverte di essersi sentito crescere i capelli, così come un altro personaggio in un successivo libro, avvertirà il rosseg­giargli dell’acidità dentro lo stomaco. È che il futile diventa tanto profondo da rasentare l’infelicità. In Brancati, alcune volte, viene adoperato il termine «dolore» ma senza motivi apparenti. Alla fine, il viaggio risulterà inutile.Del signor Anghios, alla fine, verrà detto: «La sua avventura, la più forte che avesse avuto durante la vita, non usciva dalla vita del suo pensiero solitario e perciò non aveva importanza».Il personaggio brancatiano se ne va, forse fugge da quello che lui chiama «pozzo in cui era caduto» e in realtà si trattava di un’avventura d’amore.

 

 7. In fondo, essi partono da nulla e non desiderano realmente, nulla. Nella loro inconsistenza, essi però dicono che non c’è più che cosa lasciare né che cosa trovare. Usando un ossimoro inautentico, diciamo che vivono in una sorta di indifferenza appassionata. Svevo e Brancati, dalle loro estreme periferie, Trieste e Catania, ci prestano una loro ambigua preveggenza: non c’è più dove andare. E neppure frontiere da violare. Se ce n’è qualcuna, per il siciliano, questa è lontana, remota; è frontiera al passato. Con gli arabi, per esempio. Resta del loro vitale sentimento della vita, della loro cultura ardimentosa, una nostalgia infinita.Al presente, c’è quella tra Nord e Sud. Non è differenza solamente anagrafica e può essere avvertita come una sventura. Vuol dire, talvolta, che qualcuno è privato della possibilità reale di pervenire alla propria identità. C’è nel siciliano, la spinta inarrestabile della diaspora, il vigore scomposto di una forza centrifuga che lo sospinge al di là di se stesso, oltre i limiti che lo chiudono, al di là degli stessi confini italici. Se c’è qualche vittima, essa però non è mai innocente. Da questo lato, Lùkacs e Sartre hanno ragione.

 

 8. Semmai, il problema potrebbe essere profilato nel rapporto conflittuale tra tecnica e spirito dell’uomo, tra ragioni di sopravvivenza e ragioni della immaginazione.

Non so dire se il Nord rappresenti il futuro prossimo per l’uomo, oppure il presente grigio che non ha né passato né futuro. Ricordo tuttavia Martin Heidegger e il suo saggio su Rilke del 1936, poi contenuto nel libro Sentieri interrotti. Vi stabilisce un rapporto tra mondo della tecnica e mondo della poesia. Ormai, osservava, «si insinua sempre più rapidamente [] l’oggettivo proprio del dominio tecnico» che tende a ridurre «ogni cosa a un prodotto del processo di produzione, ma rimette al mercato i prodotti stessi della produzione [...] nel valore di scambio di un mercato che non soltanto trasforma la terra in un mercato mondiale, ma che [...] tien mercato nella stessa essenza dell’essere, risolvendo così ogni ente in un affare di calcolo[...]. Il pericolo consiste nella minaccia che investe l’essenza dell’uomo». Qualche pagina precedente Heidegger aveva precisato il senso ditale minaccia: «la convinzione che la realizzazione della produzione assoluta possa aver luogo senza pericolo alcuno».

Adesso stiamo vedendo gli effetti ditale minaccia e le conseguenze di quel­la convinzione: stiamo trovando la macchina al posto dell’uomo, o l’attivismo invece della quiete.  Nietzsche ne aveva già parlato: «Gli attivi» aveva osservato, «rotolano come rotola il sasso, conformemente alla ottusità della macchina...», «Sono morti» aveva aggiunto.

 Allora si vede che la barbarie tra Nord e Sud è quantomeno surrettizia, poiché non c’è alternativa possibile tra la morte e la vita, tra ottusità e spirito, come dire tra l’elegia e lo strumento per suonarla.


UN CLARINO PER RICO

    La cosa cominciò un giorno che Rico, mandato in farmacia a prendere una certa  medicina per il babbo, la trovò chiusa; e poiché gli dissero di aspettare ed egli era paziente e tranquillo, aspettò.

Quella era la via principale del paese, dove si trovavano le case più importanti: l’ufficio del delegato, la farmacia, il tabaccaio, il negozietto di Ferdinando, la chiesa. Il paese era un mucchio di case aggiustate sopra una collinetta, con strade strette e tortuose, brevi e sempre deserte durante il giorno, mentre tutt’intorno i campi si stendevano fino all’orizzonte.

Fu al negozietto di Ferdinando che Rico si fermò a guardare, ad una vetrinetta opaca dietro cui, tra fili immobili e antichi di regnatele, facevano mostra di se gli oggetti più disparati che il lungo abbandono, il calore del sole (che nelle giornate estive vi batteva a lungo e forte), avevano coperto di una patina polverosa e giallastra. C’era.qualche busta, qualche bottiglietta di Colonia, ormai da gran tempo ripiena di semplice acqua, una Bibbia bordata di rosso e con la copertina nera e a metà accartocciata, e altri oggetti: statuette di gesso, una cravatta che pendeva proprio nel mezzo e sembrava il pendolo di un qualche orologio sfasciato, alcune stampe. Gli occhi di Rico, però, si fermarono sopra un oggetto strano, di una forma snella e allungata, nero e lucido, che alcuni bottoni dorati simmetricamente disposti rendevano più impressionante e misterioso. Rico stette a contemplano estasiato per un pezzo e fu a fatica che se ne staccò per correre in farmacia; continuò a pensarci, ritornando a casa.

Fu così che Rico cominciò a frequentare la vetrina di Ferdinando. Appena poteva, e poteva spesso perché il padre che possedeva alcuni palmi di terra vi si buttava fin dall’alba, Rico era lì, con gli occhi appiccicati alla vetrina, tanto che Ferdinando lo notò e un giorno lo chiamò.

«Dimmelo, che cos’è che ti piace?» gli chiese. Ferdinando era sempre in cerca di clienti.

Rico, senza rispondere, guardò la cosa.

«Quello?» fece Ferdinando meravigliato, «ti piace quello?».

Rico si limitò ad annuire con la testa.

«Quello è un danno» disse Ferdinando con solennità.

Ferdinando era stato trombettiere nell’esercito, aveva fatto la guerra, ed era tornato dalla guerra con una gamba di legno e una pensione. Aveva aperto il negozietto. Le sue idee innovatrici non avevano però incontrato il favore della gente: la sua merce restava invenduta; e così il danno, che nelle intenzioni di Ferdinando avrebbe dovuto rappresentare il principio di una moda, era da anni la sua passione e la sua disperazione. «In paese non si sente la musica» era stata la sua indignata constatazione.

«E uno strumento musicale; suona» continuò Ferdinando. Agitò le dita a bat­tere tasti immaginari, sotto gli occhi affascinati di Fico il quale subito dopo se ne tornò alle sue contemplazioni, tanto che Ferdinando si convinse a metterglielo tra le mani. «Questo ragazzo ama la musica» decise, «e perché non te lo fai comperare?» gli insinuò.

Fu lui stesso, qualche giorno dopo, a parlarne al padre di Rico. Ma questi lo accolse malamente.

«Che musica e musica» aveva esclamato. «E chi volete che vada a lavorare la terra quando sarò morto?».

Ferdinando, tuttavia, non se ne diede per inteso. Sia che ci credesse veramente, sia che si proponesse di sbarazzarsi finalmente dello strumento, o per entrambe le ragioni, andò dicendo a destra e a manca che il ragazzo aveva una grande vocazione per la musica, ne parlò al parroco, al farmacista, al delegato, a tutti che venivano in negozio. «Che vi pare» diceva, «che i geni non possono nascere anche in un sudicio paese come questo?». Oppure: «Ma ci pensate che ne verrebbe al paese se il ragazzo divenisse quel che pensiamo?».

Veramente nessuno pensava niente, ma Ferdinando con quel«noi» cercava di trasformare in convinzione collettiva quella che era soltanto una sua velleità. Intanto cominciò a dare lezioni a Fico.

«Io» diceva, «la mia parte voglio farla per intero. Il mio contributo lo do» e guardava la gente con rimprovero e sussiego.

La gente cominciò a pensare che qualcosa, in fondo, doveva pur esserci, che Rico qualche qualità doveva pure avercela, e lo stesso padre attenuò la sua opposizione. Fico frequentò regolarmente le lezioni di Ferdinando; per mesi e mesi batté i solfeggi, per mesi i suoi occhi stentarono sulle note. Ferdinando non gli dava pace. Bestemmiava, urlava, andava su e giù con quella sua gamba di legno il cui rumo­re sul pavimento atterriva più di ogni altra cosa l’attonito Rico.

Fu dopo parecchio tempo che Rico si trovò pronto al gran passo, e a Ferdinando riuscì finanche a raccogliere una colletta proclamando che era giusto che tutto il palazzo concorresse ad aiutare Rico. «La gloria sarà di tutti» usava dire.  «Come Dio vorrà, come Dio vorrà» borbottava il padre di Rico, il quale aveva cominciato a tirare le prime note dal danno. La gente aspettava.

«Eh, queste son cose lunghe» diceva Ferdinando quando qualcuno ne accennava con più insistenza, e al padre di Rico che s’impensieriva che il figlio gli crescesse senza mestiere: «E che volete» gli diceva, «che il ragazzo s’insozzi di terra?».

«Ma deve pure imparare a lavorare. Come mangia?».

«Mangiare, mangiare» sbottava Ferdinando, «ma proprio non capite niente».

Poi le note divennero suoni più uniti, e poi, dopo altro tempo, dal danno uscì la prima canzonetta. La gente ascoltò. «Vedrete, vedrete» diceva il gongolante Ferdinando. Rico ne imparò alcune, ma poi non si ebbero più progressi, sia che Ferdinando non avesse più nulla da insegnare, o che Rico non potesse più oltre imparare. Comunque il ragazzo, che si era fatto un giovane lungo e secco, suonò. Il padre lo guardava, lo ascoltava, sospirava. «Come vorrà Dio, come vorrà Dio» si limitava a dire.

E il tempo passò. Tutti divennero più vecchi, Ferdinando dimenticò le sue ambizioni, ma Rico suonava sempre e nessuno — o pochi— ricordava perché Rico avesse imparato a suonare. Forse nemmeno lui, o, se lo ricordava, non diceva niente. Si vedeva camminare con quel suo strumento, e in certe sere di luna da qualche punto della campagna si udivano le stridule note del danno. A poco a poco la gente si abituò e, come sempre avviene, dimenticò.

 Un giorno Ferdinando fu trovato morto, e Fico accompagnò il suo maestro a suon di danno. Poiché la cosa piacque, ogni morto importante ebbe la compagnia di Fico e del suo malinconico danno. Divenne il suonatore del paese. Suonò ai funerali, ai matrimoni, ai battesimi, e quando il delegato aveva da annunziare un qualche bando, ecco il danno a raccogliere la gente.

 Forse a Fico bastava, o forse no; ma non diceva niente. Comunque le cose andarono bene finché visse il padre. Il padre morì. La terra che gli toccò fu data in affitto, ma con quello che prendeva pagava a stento le tasse. La musica gli faceva guadagnare quel tanto che gli bastava a sfamarsi. Lo fecero anche sposare. Una vecchia zia, prima di morire, lo convinse a prendere moglie. Gli diedero una ragazza che pareva buona; ma costei attese che Fico vendesse la terra per poi fuggirsene con un antico spasimante. Anche stavolta la gente udì Fico suonare, e poiché c’era poco da suonare data l’occasione, e poiché Fico stava sempre solo e null’altro faceva che suonare, così la gente lo considerò un folle, un folle divertente e innocuo, con i bambini che gli correvano dietro e i grandi che ridevano incontrandolo.

«Rico, suona» gli dicevano, «Fico, suona».

Rico talvolta suonava, talvolta non diceva niente e andava a ricantucciarsi in un angolo; spesso stava via dal paese per un bel pezzo.

Un giorno lo fermò il parroco.

«Suonare non si può tutta la vita» cercò di persuaderlo. «Bisogna pur farla qualcosa. Te lo trovo io, un lavoro?»

Aveva scosso la testa. «Sono suonatore, io» aveva risposto.

La stessa risposta diede agli altri che venivano con le medesime proposte.

Continuò come sempre. Visse d’elemosina; silenzioso, solo, con quel suo clarino da cui  uscivano note sempre uguali, con quelle poche canzoni che gli aveva  lasciato Ferdinando. Nessuno, col tempo, cercò più il suo danno; nemmeno ai funerali, nemmeno il delegato per i suoi bandi. Ma lui usciva all’alba dalla sua casa, camminava per le strade, andava per le campagne. D’estate si metteva vicino ai mietitori e suonava, un po’ di grano se lo portava a casa.

Una volta fu udito gridare. Corsero da lui, lo trovarono per terra che si rotolava. «Che hai, Rico, che hai?» chiedevano.

Rico non disse niente; non disse niente neppure al medico che non riscontrò nulla di particolare. La gente pensò che ormai la pazzia s’era impadronita di Rico. Da quel giorno Fico non suonò più. Nessuno, almeno, udì più il suo danno; non andò nemmeno per le campagne, nemmeno al tempo della mietitura.

Infine sparì dal paese. La gente che si era abituata a lui e neppure gli bada­va, notò la sua assenza. Lo cercarono, in casa e negli altri posti dove era solito vivere; inutilmente. Si disse che era morto, si disse che era partito; nessuno ci pensò più.

 Una sera ritornò. Una sera che la luna era piena e tutte le cose splendevano quiete e chiare, improvvisamente si udì il suo danno. Nel silenzio, le sue note si diffusero per le strade, svegliarono la gente. Per tutta la notte il danno di Rico impazzì. Non ci fu una strada che non percorresse, un vicolo dove non penetrasse. Si udì a lungo, monotono e assillante come il grido di un’enorme cicala. Fino all’alba.

All’alba, i primi che uscirono lo trovarono impiccato sotto un albero; il clarino gli giaceva vicino, ridotto in frantumi.

Tutti pensarono che Rico avesse voluto portarlo con se nella morte, e nessuno pensò che potesse anche essere odio, il quale tante volte nella nostra vita cammina assieme alle cose che più di tutto abbiamo amato.


| bibliografia ||cenni bibliografici|| farfalle| | il giro della vite| | le linee della mano | | a Vera e Cetti | | la metafora dietro a noi | | alternativa di memoria  || il bel verbale | | Leonardo e i suoi amici | |copertine|  | premi | | premio Moravia |

| HOME |

| contatti |