incontro con lo scrittorea cura di Maria Paola Fisauli - Tea Ranno intervista |
D.
L'inclinazione
a scrivere, i primi confronti, le esperienze. R. Non so se si tratti di inclinazione, o di che
altro. In genere, le risposte
a consimili domande, sono molteplici, solenni ed enfatiche; qualcuna
perfino nobile. Per conto
mio, alla domanda: perché scrivere, potrei rispondere perché mi piaceva,
oppure: perché non avevo di meglio da fare.
In realtà cercavo di conoscere me stesso in rapporto con la società
e nell'impatto con l'altro. La
questione più importante mi sembra un'altra.
Non perché, o come, si inizi a scrivere, bensì perché si
continui. D.
Perché
è rimasto a Lentini? R. Dapprima
per motivi di lavoro. Ci sono rimasto così a lungo forse per
abitudine, o perché non trovavo una ragione sufficiente per andarmene,
forse anche perché ritenevo che un paese consenta maggiore
concentrazione. Certo è che
vi ho scritto diversi libri a cominciare dall'Uomo fidato. D.
C'è
stata una breve parentesi di sua residenza milanese, mi pare negli
anni ottanta, perché ha interrotto
quell'esperienza? R. Probabilmente per motivi opposti.
Avevo ottenuto dall'editore il consenso di lavorare in Casa
editrice e perciò restare a Milano.
Mi resi conto di correre il rischio di disperdermi, anche se la
permanenza mi avrebbe consentito maggiori contatti e, forse. qualche
scommessa diversa. Il fatto è che il siciliano ha alle proprie spalle un
insieme di atti mancati, di gesti incompiuti.
Non escludo nemmeno una forma di masochismo.
Comunque, i motivi sono diversi, rientrano nella psicologia e nella
confusione. D Mi vuol parlare dei suoi rapporti con altri scrittori siciliani? R.
In genere, sono buoni, anche se non corporativi. I siciliani hanno come
caratteristica di non formare una "scuola"; ci sono molti
epigoni, ma pochi maestri. Il
siciliano, ebbe a scrivere Pirandello, è
"isola, e da sé si fa isola". D. Adesso
parliamo delle sue opere d'esordio che sono di saggistica e narrativa: "Vittorini
e la narrativa siciliana”' e "Violetta'. R. In verità avevo già scritto una
quarantina di racconti brevi pubblicati su quotidiani e riviste.
Per quanto riguarda la scrittura saggistica, essa venne fuori perché
ogni libro che, da ragazzo, andavo leggendo (dovendolo fra l'altro
restituire) lo annotavo in un quadernetto, affinché di esso mi rimanesse
una qualche traccia. Naturalmente,
annotavo le mie impressioni. Spesso
gli esordi sono casuali e alquanto frastornanti.
Avevo scritto un romanzetto che aveva interessato Vittorini per i
"gettoni". Era
disposto a pubblicarne una parte, io però non mi trovai d'accordo in
quanto ero ancora legato al "mito" del libro.
La risultante fu che non venne pubblicato. Il libro di saggi rinacque da una relazione sulla narrativa
siciliana, tenuta a Palermo. Poi
ci lavorai anche per suggerimento di Leonardo Sciascia, e divenne libro. D.
Una
lunga parentesi, apparentemente di silenzio, tra l'esordio e "Il
giudizio della sera” pubblicato da Garzanti nel 1974.
Crisi o ricerca? R. In verità fu una parentesi di duro e bruto lavoro;
ma necessario. Lavoro per
vivere, intendo. Durante
quegli anni mi riuscì di scrivere alcuni racconti lunghi, poi apparsi su
"Nuovi Argomenti" nei primi degli anni settanta.
Tre di tali racconti, ampiamente rivisti, vennero pubblicati con
Scheiwiller nel 1987, e costituiscono il libro: Palinsesti borghesi. D.
"Il giudizio
della sera "e "I mandarini calvi”, una definizione per questi
due libri. R "Il Giudizio della sera", pubblicato da Carzanti
nel 1974, è un libro di formazione, una "educazione
sentimentale" vissuta all'insegna del doppio e contemporaneo impatto
con il sesso e la guerra. E
c'è l'impatto con Catania degli ultimi anni di guerra, le sue strade
sporche, il ginepraio dei vicoli, la gente forsennata.
La difficoltà che ho dovuto superare è sta ta quella di dover
trattare Catania dopo Brancati che potesse avere anche il brancatiano
senso di malinconia e di morte, senza però ricondurla a moduli
brancatiani. Dopotutto è un
libro di speranze, e il "parricidio" con cui il libro si
conclude è la metafora della negazione della cultura dei padri, in vista
di una nuova cultura (e di una nuova società). "I
mandarini calvi", pubblicato da Scheiwiller nel 1978, è stato
scritto anteriormente al precedente, e affronta un tema a me molto caro,
quello del piccolo borghese, nella forma del professore, un tema già
affrontato nei racconti brevi (non ancora raccolti in volume) e nei
racconti lunghi che sono i tre racconti pubblicati da Scheiwiller.
Considero il piccolo borghese il ceto sociale più tragico e il
depositario della dimensione estetica e morale fino a rasentare il
moralismo e il conformismo più ambiguamente ipocrita; cioè il meglio,
direi, il peggio della realtà sociale, come ho scritto in un saggio
compreso nel volume Oltre le figure, pubblicato da Sellerio nel 1989.
Il libro è la storia di un anno di scuola vissuto attraverso un
professore che passa dalle prospettive e dalle passioni culturali, alla
delusione esistenziale fino, e sia pure ironicamente, al rientro nella
norma; il che significa passaggio dalla disponibilità alla cupa necessità
dell'esistenza. "I
chierici traditi", pubblicato dalla Pellicanolibri nel 1978, vuole
nel titolo ironico alludere a una sorta di perdita di ruolo della cultura.
Raccoglie saggi e interventi letterari che nella prima parte
arieggiano categorie lukassiane, mentre la seconda parte dedicata a poeti,
probabilmente prospetta il mio passaggio ad una scrittura linguisticamente
più libera. In qualche modo
il libro vive nell'atmosfera del romanzo. D. "Un uomo fidato”
è
il romanzo che torna all'indagine del costume politico? R. Un uomo fidato, pubblicato con Garzanti
nel 1978, è libro di ironia e della non speranza, nell'impatto del
protagonista con i problemi di una società moralmente e politicamente
degradata. Sotto un altro punto di vista, si può trattare di una
variante della condizione del piccolo borghese, ma dentro una realtà che
non ha altre prospettive se non il potere, l'arroganza, il denaro. E' perciò un romanzo di disperazione. Rispetto
ai racconti di Palinsesti borghesi (che
sono anteriori anche se pubblicati posteriormente) c'è la diversa
considerazione del piccolo borghese, il quale nei racconti è visto in
relazione a problemi di natura metafisica (come la morte: anzi nella nota
dico che i tre racconti sono "tre modi di morte), mentre nel romanzo
è visto al livello dei problemi quotidiani. Aggiungo
che i due libri danno una diversa prospettiva di Catania, D. "La
metafora dietro a noi” sembra inauguri altra stagione nella sua attività
di scrittore.. C'è già il
manifestarsi d'un altro fondamentale aspetto della sua
scrittura, quello della poesia. E'
così?
R. Ne La
metafora dietro a noi, pubblicato dalle edizioni di
"Spirali" (Milano, 1980), c'è un esperimento di poesia in
prosa, condotto sul filo di un linguaggio estremamente metaforico che si
realizza come la risultante di un contrasto tra l'adesione alla poesia e
l'ironia sulla poesia. E'
vero che nel 1979, in un "Collettivo" di Guanda, avevo
pubblicato una breve raccolta intitolata Significati
e parabole, ma è La metafora
dietro a noi che segna una vera e propria rottura linguistica rispetto
alla mia scrittura precedente. E
costituisce, per molti aspetti, il sintomo di quella che più avanti può
essere denominata "disperazione storica", che infatti diventerà
consapevole nella raccolta garzantiana del 1983: Il
giro della vite. D. Con 'Le
abitudini e l'assenza' lei si rivolge al privato dei sentimenti, al
proustiano indagare della memoria? R. Le abitudini
e l'assenza, pubblicato da Sellerio nel 1982, è il racconto come una
delle varianti del rapporto con la madre.
Secondo me, pur potendo rientrare nella tematica proustiana della
memoria, nella sostanza se ne distacca.
Anzitutto, non c'è adesione sentimentale da parte del narratore
verso il mondo dell'infanzia, e si tratta di una "memoria
critica", che implica partecipazione e distacco. E'un
libro nato come nascono molti libri, un po'ermafrodito perché ha della
prosa e della poesia, caratterizzato come esso è da tagli brevi, da ritmi
e da allusioni, da una scrittura a chiazze come un acquarello.
E' il tentativo di unificare prosa e poesia, che riesce una sola
volta e perciò può apparire anomalo rispetto alle altre cose mie.
In verità, nacque come un insieme di brani, poi divenne racconto,
pubblicato su "Nuovi Argomenti" col titolo: Diario con mia
madre, subito dopo sviluppato, divenne libro.
In questo libro ho adoperato il registro della poesia, come
essenzializzazione di mezzi e ampliamento di senso.
Perciò il paese D. "Il giro
della vite” sorprende i suoi lettori, che scoprono nella sintesi delle
sue poesie un mondo rimasto fuori dai suoi interventi di narratore.
Vorrei che mi parlasse di questa sua nuova ricerca espressiva e fino ai più
recenti esiti di "Le linee della mano”. R. Qualcosa, in proposito, ho scritto per la rivista
milanese Poesia. Capisco la
sorpresa; in realtà, sono sorpreso anch'io, poiché, tra l'altro, è
alquanto inusitato il passaggio (ma non definitivo) dalla narrativa alla poesia. E'
che ad un tratto ebbi a rendermi conto come la logica che presiede alla
comunicatività della narrazione, non reggesse più nei confronti del
mondo che stava andando in pezzi, mentre surrettizie mi apparivano le
categorie sulle quali esso si era sorretto.
Come i discorsi filosofici si frantumano nell'Aforisma che agisce
come il lampo nella notte: la illumina vivissimamente, ma subito dopo
rende il buio più denso e compatto; così
è la poesia rispetto alla scrittura in prosa.
Tanto, la letteratura (e per fortuna, sia del mondo che della
stessa letteratura) non deve trasformare nulla, semmai prestarci uno
sguardo, la lucida consapevolezza di un destino da vivere. In
ogni caso, ogni variazione di linguaggio è il risultato di una mutazione
di visione. La
mia visione del mondo ebbe a spezzarsi nell'impatto traumatico con Milano,
dove ebbi a risiedere variamente e anche lungamente. Quello
di cui mi resi conto è che la grande comunità, questo luogo di civiltà
e di cultura, non era che deserto e solitudine, estraneazione ed estrema
monadizzazione, assenza e oggettiva crudeltà; le grandi periferie
affollate e anonime, oppure svuotate e dure, prive di pietà e perfino di
dolore, mentre l'indifferenza si spiaccicava sui volti come smog. La
resultante fu Il giro della vite, che reca le date 1978-81, pubblicato da
Garzanti nel 1983. La
raccolta garzantiana non parla di Milano, che viene citata una sola volta
in un titolo, bensì ricapitola il "senso" di una situazione e
lo stato di una deiezione, che continua a sembrarmi inesorabile. Milano,
cioè la condizione metropolitana, rimane, rispetto alla raccolta, come suo alone necessario e interiore fondale.
Ma ormai, dopo Leopardi, è difficile (secondo me è impossibile)
scrivere di poesia spinti da una qualche passione, anche la passione per
la parola; dopo Leopardi, consapevolmente, la poesia va scritta con
freddezza e con un po' d'ironia; quasi senza emozione.
Kantianamente, la poesia mi sembra rientrare più tra giudizi di
esperienza, che non tra i giudizi empirici.
Il poeta che confessa le sue angosce personali, private, qualche
volta mi provoca reazioni negativamente viscerali.
La Laurá petrarchesca è più una proiezione fantastica, che una
realtà. Petrarca è un
mentitore, cioè è poeta. Per
tornare alla mia poesia, e più o meno anche alle ragioni di essa, mi
sembra che la scrittura in versi possa rendere più conto della situazione
che viviamo, poiché il suo non è il linguaggio reificabile della
comunicazione, ma della espressività. Nel
Giro della vite mi sono proposto una poesia "oggettiva" voglio
dire più attinente alla realtà dell'uomo che non a ragioni strettamente
private. Perciò, è un libro che può apparire duro, spigoloso, quasi
dogmatico. Sotto
questo aspetto, Le linee della mano, la raccolta pubblicata da Garzanti
nel 1990, risulta più disponibile verso le ragioni del soggetto, più
cordiale e aperto, e, se si volesse, si potrebbe dire che il rapporto tra
le due raccolte è di poetica e di poesia (più o meno quello che la
critica stabilisce nel passaggio montaliano da Ossi
di seppia a Occasioni). Mi
rendo conto che la poesia è linguaggio, ma non sono del tutto d'accordo
con Sartre e K.Kraus, secondo i quali il poeta deve farsi "servo del
linguaggio". E'
vero che ci si lascia trasportare dalle suggestioni delle immagini, ed è
vero che il linguaggio della poesia è linguaggio di simboli, metafore e
allegorie, ma è altrettanto vero che non ci può essere una scomparsa di
sé nella poesia, in questo senso mi pare di poter riconoscere, attraverso
Leopardi, la lezione dell'Estetica di Giovanni Gentile. D.
Addamo
saggista, collaboratore di giornali, non quello esclusivamente
letterario ma quello delle riflessioni politiche e di costume. R. I chierici traditi e Oltre le figure,
sono anche momenti di una ricognizione che vado effettuando su libri e su
umori, anche cattivi umori.
Non sono stato mai favorevole a quell'indicazione che fa dello scrittore
un "direttore di coscienze".
E' una nozione di intellettuale che io non ho mai condiviso.
Tuttavia, ho sempre continuato ad avvertire la necessità che anche
lo scrittore debba prendere partito, esprimere le proprie opinioni, non
perché siano più certe delle altre, ma in ogni caso, lo scrittore le
dice meglio, e quindi possono risultare più incisive. D.
Sebastiano Addamo e la sua famiglia. R. I rapporti coi figli sono buoni.
Condizionano certe scelte. Tra
un D. Si sente
appagato confrontando il bilancio tra energie spese e frutti
raccolti fino a questo momento? R. Mi pare fosse stato Faulkner a scrivere che ogni
libro è un fallimento. E io
ne sono d'accordo. Tra
l'altro, la logica letteraria fa sacrificare qualche idea, non perché
essa sia confusa, come dice Croce, ma perché non rientra nel ritmo della
scrittura. Ciò vale sia per
la prosa che per la poesia. Comunque,
il libro diventa, appena fatto, altro da sé.
Forse si può leggere anche in questo senso l'espressione che
adopera Rimbaud in una lettera: "lo sono un altro". D. Cosa potrebbe
suggerire a chi compie oggi vent'anni? R. Di vivere. Però
capisco che si possa vivere anche coi libri. Molto
meno, però, per mezzo dei libri. D. Ci sono libri
mi riferisco evidentemente a classici che, lei ritiene, abbiano
potuto influenzare particolarmente la sua formazione? R. Potrei dire che i classici io li ho incontrati
"dopo". E'il
presente che ci fornisce lo sguardo sul passato, e non è il contrario.
Pur avendolo studiato nelle scuole, Dante l'ho incontrato,
veramente, vent'anni fa. D.
Qualche
nome di scrittore del Novecento a lei caro. R. In questi tempi, Céline.
Proust e Dostoevskij da sempre assieme a
Nietzesche e a Montaigne, Baudelaire.
Qualche libro di Gadda e di Thomas Mann.
Per la poesia, Montale, Sereni, Eliot, Dylan Thomas.
Mi vengono in mente poiché mi vengono chiesti.
Può darsi che in altre circostanze farei altri nomi. D. C'è
un tema che l'affascina da sempre, su cui, prima o poi, scriverà un
libro? |
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