VITALIANO BRANCATI E IL FASCISMO * |
A meno di dieci anni dalla pubblicazione del Manifesto degli intellettuali del Fascismo dove, ad opera del Gentile, gli squadristi venivano definiti «giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, ( che) si misero contro la legge per instaurare una nuova legge», e dove, fra l'altro, in polemica con le accuse di reazionarismo e di illiberismo contro il fascismo rivolte, si sosteneva che «il Fascismo è spirito di progresso e di propulsione di tutte le forze nazionali»; a meno di dieci anni, precisamente nel 1934, il solito Ugo Ojetti che di quel Manifesto era stato peraltro firmatario, poteva già rivolgersi al lettore italiano con rassicurante certezza: «Lettore non ti meravigliare della scarsezza delle recensioni librarie. Viviamo in un'epoca d'azione, e i fatti contano più delle parole. Del resto, se hai bisogno di leggere, non cercare libri inutili, ma leggi e rileggi i discorsi del Duce». Era dunque tutto questo il «progresso» e la «propulsione» fatti sperare dal Citato Manifesto? A pensarci, le parole dell'Ojetti più che una rassicurazione sono già un consuntivo di sconfitta; quel «leggio e rileggi i discorsi del Duce» potrebbe suonare come un modo vagamente beffardo o sostanzialmente cinico di definire una condizione se non sapessimo che sitrattava non di una commedia bensì di una realtà – e anche se la realtà, almeno questa realtà, era di per sé ridicola più che ogni commedia. In verità, qualche libro veniva pubblicato. Nel 1929 erano apparsi Gli indifferenti di Moravia; Vittorini nel '31 pubblica i racconti di Piccola borghesia e Pavese la prima poesia di Lavorare stanca; nel '30 Jovine pubblica il suo primo libro, seguito nel '34 da Un uomo provvisorio che già profilava il narratore che successivamente si sarebbe confermato; e nel medesimo '34, mentre in Francia usciva La condizione umana di Malraux, Carlo Bernari pubblica Tre operai. Si tratta di libri o di direzioni fortemente impegnati nel senso di una problematica sociale e non certo nel senso di un impegno fascista, pur se la censura fascista non sempre se ne accorgeva, come già notava lo stesso Vitaliano Brancati nel Diario romano: «I censori... pieni di felicità fino all'aquila del loro berretto, non vedevano quasi nulla» e parla perciò, per spiegare la letteratura del tempo, di uno «stile allusivo» che comincia in quel tempo a nascere, «uno stile protettivo», un guscio dentro il quale non penetravano «gli entusiasmi di massa, i brividi collettivi, gli urli oceanici», mentre la corrispondenza sui giornali veniva «scritta in un inchiostro simpatico che solo il disgusto per la società d'allora rendeva nero». Veramente c'è una censura infingarda, un po' triste, semicieca, se fa interrompere Il Garofano rosso che Vittorini andava pubblicando su «Solaria» (e la stessa rivista venne sospesa), ma lascia tranquillamente passare alcuni anni dopo Conversazione in Sicilia del medesimo Vittorini. Comunque, questi scrittori che ho rnenzionato sono fuori del gusto fascista, restano ai margini dell'ufficialità; eppure si tratta di scrittori che già contavano e che avrebbero continuato a caratterizzare la cultura italiana postfascista, ma i quali, proprio a causa dell'autenticità del loro impegno, non potevano che collocarsi al di fuori del fascismo - o contro di esso. Di questa ostilità della cultura riuscirono a rendersi conto perfino i fascisti, se infatti nel luglio del 1935 su Romafasdsta Sergio C. Lupi poteva scrivere: «Vi sono stati dei tentativi di romanzistica da parte di giovanissimi; ma purtroppo noi non siamo riusciti a metterci d'accordo col mondo etico di Alberto Moravia e nemmeno con l'incertezza spirituale di Francesco Jovine. Perché noi abbiamo trovato una ragione morale per vivere, e non ci sembra che si possa vivere indifferentemente o provvisoriamente». Inutile osservare che la «ragione morale» che ostentavano i fascisti era esattamente quella che mancava nella società che Jovine e Moravia rappresentavano, se infattI Jovine nel suo romanzo (proibito alla seconda edizione) registrava lo squallore e il vuoto della intellettualità piccolo-borghese della provincia, e se Moravia ci' dava soltanto una etica negativa come emergeva all'analisi di un campione di società medio-borghese. Proprio perché tutto sommato il Lupi se ne rendeva conto, egli poteva invocare: «Fascistizziamo la novella. Non mancano gli organi di controllo, e non manca il modo di creare il genere e lo scrittore». Ci viene difficile capire in che maniera questo Lupi ritenesse di poter «creare il genere e lo scrittore», mentre più chiaro è il riferimento agli «organi di controllo», un appello alla censura a far lneglio il proprio lnestiere. Ma ciò che è notevole è che evidentemente, e contrariamente agli auspici dell'Ojetti, i discorsi del Duce «da leggere e rileggere» non dovevano essere ritenuti sufficienti nemmeno da un Lupi qualsiasi, se costui era costretto a invocare una nuova novella e per di più fascista. Bisogna convenire: alla realtà fascista mancava e mancò una letteratura fascista. Per il resto c'era tutto; o per lo meno c'era tutto quanto s'intende per realtà fascista: l'opposizione estinta, Croce isolato, Gramsci già in carcere, e gli altri da Turati ad Amendola, a Gobetti, a Salvemini, in esilio o già morti; il libero Parlamento, dopo che vi era risuonato l'ultimo discorso di opposizione pronunciato dal Croce avverso i patti lateranensi, praticamente cessato; la stampa libera ridotta al silenzio. In compenso c'era la censura e c'era l' «ordine»; in compenso furoreggiava per le strade il giuoco del yò-yò, esemplare giuoco che nella sua assoluta vacuità rivelava quel che di vuoto e di solitudine c'era nella situazione del tempo; in compenso c'erano i discorsi del Duce, la milizia, lo squadrismo, e gli inni, le" parate, le «adunate» e la guerra che veniva preparata e che nell'ottobre del 1935 veniva iniziata contro l'Etiopia. La bruta scalata aveva così inizio, la commedia cominciava già a tingersi di altri e più lividi, oscuri, colori. Ma come profeticamente aveva dichiarato l'Ojetti (si trattava però di ovvio profetismo e facile), quella era «epoca d'azione», e infatti Marinetti poteva invitare poeti e artisti alla guerra, cioè all'unica forma d'arte vermnente futuri sta e veramente fascista: «Poeti e Artisti d'Italia. Vi potrei dire brutalmente che non vi è nulla di meglio da fare che combattere per l'Italia in Abissinia. Preferisco mostrarvi come noi futuristi dopo aver ventisei anni fa proclamato la guerra "sola igiene del mondo" la infioriamo oggi così. Questa guerra africana è il modo più sintetico di riassumere oggi la propria vita secondo la nova Italia di Mussolini».
Siamo dunque nel '35. Nel medesimo anno Brancati scrive la novella: In cerca di un sì. Potrebbero, data e titolo, non apparire rilevanti, se Antonicelli, per esempio, può considerare Il bacio, racconto scritto nel '38, come documento della resistenza antifascista; e se il medesimo Brancati nel Diario romano segna la data del '36, per l'inizio della sua posizione antifascista: «Tutto quello che scrissi o pubblicai dal '36 in poi..., è ostile al gusto ufficiale». Il bacio è certamente un racconto antifascista, ma di un antifascismo il quale, espresso in modi di satira gogoliana (ma con echi cechoviani), resta alquanto esterno, come in definitiva risulta esterno in un altro racconto del 1944: Una festa da ballo dove il fascismo, ripreso negli anni '38, ci appare nella forma della pantomima: «Quante divise in quel ballo, che luccichio di stivali! Che alamari, che saluti, che maestre eleganti, che ispettori, che ispettrici, che teste arrovesciate, che spie, che menti in aria, che nastrini, che giubbe, che sorrisi, che ordine, che mammelle, che rispetto per i potenti, che giornalisti, che navigatori, che trasmigratori, che volatori, che inni, che alalà!». C'è in questo breve ridolente affresco tutto quel mondo gerarchico, untuoso, trionfale, posticcio e stereotipato, colto in questa specie di sarabanda di streghe, in questo ballo che pare sigillare una conquista e invece è il preludio della decadenza, poiché questo ballo, osserva Brancati, fu l'ultimo, «l'ultimo di un'epoca in cui l'infinita progenie dei bruti visse felicemente». . Il giudizio di Brancati sul fascismo è netto, certo amaro, definitivo e senza riserve, e il Diario romano ce ne dà di continuo assillanti testimonianze: «Il fascismo - scriveva ne11950 - non è un partito né una morale; è ormai una materia putrefatta. E veramente antistorico, un corpo estraneo». È per questo rifiuto totale che Brancati non può consentire che vengano per esempio messi sul medesimo piano il Parlamento libero e la Camera dei Fasci: «Quante persone) si esercitano oggi in Italia nel giuoco di trovare simili la Camera dei deputati e la Camera dei fasci e delle corporazioni...? I salotti sono pieni di questi poveri diavoli». Per questo, sia pure in modi di scherzo e di scherno, può anche avvertire il pericolo di un ritorno fascista: «Il fascismo è come il morbillo: preso a vent'anni, se ne guarisce; a quaranta è mortale. Anche le ricadute sono mortali» Eppure non si tratta di questo, o non soltanto di questo. C'è di Brancati - a parte quello scoperto de Il vecchio con gli stivali, per eselnpio, o de Il bel! 'Antonio - un antifascismo più sottile, molto meno caratterizzato, e perciò più valido (esteticamente e moralmente) perché costitutivo del suo stesso modo di sentire e di pensar Brancati, in fondo, non ha una ideologia da cui guardare e mediante cui fronteggiare il fascismo: il mondo del lavoro è assente dai suoi libri, come è assente una qualsiasi dialettica delle classi: egli è - e resta - un borghese che non si allontana dalla sua classe, che non scorge e neppure cerca un' alternativa. La sua stessa tavola dei valori non solo non è ampia, ma neppure chiaramente definita e definibile: è un generico sentimento di libertà (il suo Croce), è un elemento di buon senso e di buon gusto che lo portano a guardare, da moralista, la realtà politica, cioè «secondo regole che non sono le sue» come osserva in una pagina del Diario. E tuttavia, proprio a motivo di questi limiti gli è più facile cogliere il fascismo nei modi di quella classe media che era stata quel sughero (non certo il cemento) su cui il fascismo sempre galleggia, e perciò il fascismo può essere rappresentato senza che, talora, neppure venga nominato, ci diventa la malattia medesima, il vizio segreto di quella società e di quella classe: non è il fascismo che ha alterato questa società e questa classe, bensì queste alterazioni, sono esse il fascismo; ed esse si stampano nelle smorfie perenni dei personaggi, nelle loro tare le quali derivano più che dalla fisiologia da una specie di pigrizia sociale: l'uomo che, come Antonio Percolla de Il don Giovanni in Sicilia, si adagia negli schemi delle abitudini tradizionali, o come Leonardo de Gli anni perduti per il quale «tutto era scuro: quello che avrei fatto non lo sarebbe stato di meno! Così, ho preferito di non far nulla». C'è questa impotenza di agire, che poi diventerà la impotenza virile di Antonio Magnano de Il belI 'Antonio, questa disponibilità senza limiti che si muta in accidiosa inquietudine, in velleitaria attesa, in oniricità ossessiva. E il fascismo è una vischiosa interminabile linea, non qualcosa di chiaramente identificabile, bensì un modo di vivere o, meglio, di non vivere; è la noia, lo sperpero del tempo, è l'ideologia del vuoto e del nulla, da cui emerge, ma nella forma di una felice narratività, l'amarezza di Brancati la quale, celata e insieme rivelata dall'ironia, fa presentire un'ansietà esistenziale, un male di vivere celebrato in ghigni grotteschi, in monologhi così loici eppure così inconclusivi, nei lunghi conversari senza tempo, ed era in fondo la società del tempo fascista che in quei pensieri così terribilmente ovvi, nelle fameticanti conversazioni, in quello stesso mito della donna elevato a sistema etico, mostrava la sua vera anima senza salvezza e quella sua ideologia che poi consisteva nell'assenza di ogni ideologia. Possiamo benissimo ammettere che dialoghi e personaggi siano tolti di peso dalle strade di Catania, consegnatici in naturalistica mimesi e quasi senza alcun artificio tecnico, se non ci fosse uno scarto, quasi una breve sospensione, una specie di rarefatto alone dentro cui viene immesso il personaggio e che gli fa perdere la sua realtà catanese per caricarlo della verità brancatiana, facendolo uscire dalla strada,' dai bar, dalle stanze da letto, dalle soffitte, per assumere i freschi sensi dell' arte. La comicità di Brancati è questa: non la particolare caratterizzazione dei personaggi e neppure le loro avventure futili e le loro imprese inutili, neppure le battute, i vizi errabondi, le fantasie erotiche, bensì la «serietà» con cui tutto questo viene vissuto. Sono comici poiché sono seri. E c'è quel fondo dolente amaro e melanconico che incornicia questa comicità, e direi che essa è proprio «fatta ad arte» per meglio evidenziare la tetra drammaticità di una situazione che è al di fuori e nel tempo stesso dentro i personaggi, sebbene a loro insaputa. Davvero: la comicità di Brancati è una. faccenda seria. Ecco perché, a questa luce, assume rilevanza la novella del 1935, la già menzionata: In cerca di un sì. Ma ciò che costituisce l'importanza della novella è la collocazione temporale: è il momento in cui il regime sta segnando al proprio attivo il culmine della potenza e della popolarità. Ebbene, ciò che Brancati enuclea è la solitudine e lo squallore del mondo, la mancanza di solidarietà per un tempo che appariva di epopee e che esaltava l'amor di patria; e in un periodo risuonante di inni e di ferraglia, l'uomo di Brancati appare inperfetta antitesi col modello ufficiale, «gente per bene» chiama infatti Brancati, quella che «nella terra, aveva lavorato senza molto rumore». Si tratta beninteso di un breve scorcio, ma esso avrebbe trovato più piena realizzazione nel romanzo: Gli anni perduti, pubblicato nel 1941 ma che reca la data: novembre 1934 - marzo 1936. È un romanzo che si può leggere su diversi registri: come il libro che contiene in nuce i motivi dei libri maggiori Don Giovanni in Sicilia (1941) e Il bell'Antonio (1949), nel quale il gallismo già si affaccia ma con discrezione e cautela; o si può leggere come una summa del convenzionalismo medio-borghese di provincia; o come un' allegoria, l'allegoria comica, serena e triste dell' epoca. Eppure in tutto il romanzo non si incontra un solo gerarca, non viene mai pronunciato il nome fascismo, e nulla c'è di quella situazione rovente, retorica e guerriera che caratterizzava l'Italia: come se il fascismo fosse qualcosa di molto lontano e remoto, come se riguardasse un altro paese. VuoI dire soltanto che il fascismo era esattamente questo: lo scorrere pigro dei giorni (La vita se ne va». «Diciamo di ammazzare il tempo. E noi stessi, che ammazziamo!» si dicono i personaggi), era l'indolenza interminabile, era il torbido sognare di partenze che mai avvenivano, le inerte chiacchierate e lo scirocco, il vuoto, il dileggio, la noia. La noia. Nel Diario Brancati annota: «Era il 193 7. Una barbara noia ci consumava in mezzo alla festività generale». Un racconto del 1944: La noia nel 193 7, si apre con questa osservazione: «Chi non conosce la noia, che si stabilì in Italia nel 1937, manca di una grave esperienza», una noia, si aggiunge, che «era grande. Non si poteva sfuggire alla brutalità senza annoiarsi mortalmente», per cui il personaggio di Vannantò, «avendo trent'anni nel '37, faceva l'unica cosa nobile che potesse fare un uomo come lui: si annoiava». . L'insistenza di Brancati sulla noia è troppo marcata per non farci capire che essa più che una constatazione è un giudizio e una categoria, un modo di ordinare e valutare gli eventi. Gli anni perduti è il romanzo della noia e della impotenza; e Natàca-Catania, oblomoviana, pigra, indolente, «città funesta», perde i suoi contorni spaziali di città insulare e periferica, diventa luogo identificato e identificante per una commedia vera e irreale, vivace, «comica» e quasi macchiettistica eppure fatalmente ambigua, quella ambiguità che trova la serietà morale quando essa riesce a tradursi in arte. L'indifferenza quasi nordica, ostile e severa di Moravia qui cede il posto a una morbidezza pigra intrisa di sole e di scirocco, a una accidia tanto più cieca quanto meno essa è consapevole. La noia brancatiana è qualcosa di più e di meno della indifferenza di Moravia: è vuoto, oscuro desiderio, delusione senza disinganni, è l'attesa perenne di uno scopo che fra l'altro né si cerca né si saprebbe dove e come cercare, è mancanza di ogni rifiuto, è essenza contemporaneamente di speranza e di disperazione. Sono uomini che vivono ai margini della possibilità, immersi in un tempo senza durata, freneticamente aggrappati al lieve giuoco dei loro amori sognati e mai avvenuti, e che si trascinano il passato carico di tutte le occasioni mancate. Leonardo, Lello, Giovanni, tutti gli altri, inseguono soltanto le cose che sfuggono, e per tutti può valere quanto viene detto per Giovanni, che «il non aver fatto mai nulla è come se nessuna cosa gli fosse fallita». La vita così, questa vita di provincia, è vista allora come destino e cieca fatalità, tenace sortilegio e struggente forza che avviluppa e Gli anni perduti ne sono la celebrazione, apoteosi della sconfitta e del fallimento, fino alla impresa finale, l'iniziativa della torre panoramica che doveva salvare tutto e tutti, e invece li perde. «Un progetto di questo genere che comporta molto lavoro e molte preoccupazioni, è bene adatto a riempire la nostra vita», dice Leonardo, ma per aggiungere subito dopo: «Purtroppo, nella, nostra vita si è formato un vuoto in cui può stare comodamente una torre di quaranta metri». Un progetto naturalmente inutile, una impresa balorda e futile ma che può aiutare a riempire un anno di vita, come il yò-yò che per un istante nel libro viene evocato e che può servire a riempire un' ora (e l' evocazione del yò-yò al principio del libro, e verso la fine, è la frase squillante biascicata dalla radio: «Fori, grandi e invincibili..., lo slancio, la potenza, la durezza, la tenacia, l'ardire!...», sono gli unici indizi che richiamano l'epoca). La torre panoramica che avrebbe richiamato folle di visitatori e portato mucchi di soldi, finisce miseramente: è Morgante, gigante enonne che combatte i nemici con un grosso battaglio di campana e miseramente muore per il morso di un granchio lino; ed è la metafora dell'inutile, del gigantesco, dell'attivismo fine a se stesso e che copre la sostanziale povertà d'immaginazione e l'impotenza quasi metafisica di una generazione e di una società. Questa torre che vistosa e inservibile s'innalza sopra i tetti di Catania, c'è proprio bisogno di dirlo che è quell'impero fascista finalmente, tardivamente, inutilmente tornato sui colli fatali? Il resto fu poi più facile. Più facile il passaggio dall' allegoria al mito del Don Giovanni, dal sogno della donna alla filosofia della Donna, e l' erotismo schernito si fa simbologia, il sesso dispotico diventa categoria, si fa gallismo; e il gallismo, fascismo. Il Don Giovanni certo è Catania, ed è Sicilia e mediterranea solarità, ma anche altro; e le minute vicende, spesso gratuite, sempre nevrotiche e disgregate, la sonnolenza, la pigrizia allontanata e alla fine riaccolta, tutto questo è già la cifra delle più grandi e altre e ridicole (ma brutalmente ridicole) vicende che l' Italia viveva. Finché si arriva a Il bel!'Antonio (1949). Ormai, caduto il fascismo, finita anche la guerra, non c'è più bisogno di oscurare la simbologia: l'estro di Brancati può spaziare senza ritegno, lo scherno non ha più limiti, e il sesso dilaga ma per assumere la fisionomia, il volto, l'ieratico gesto e il solenne supremo fasto, il lusso decomposto del fascismo. Ora la satira può dar luogo al disprezzo, e la rappresentazione farsi giudizio. Si vedono i gerarchi, la loro miseria e la loro infingardaggine, e anche si parla di Mussolini mai nominato direttamente ma variamente denominato: «Il porco che ci governa» o «il personaggio più potente d'Italia», oppure, e con riferimento alle sue imprese africane, come «maestro di scuola» e per di più ignorante «<Ci vuole l'ignoranza di un maestro di scuola per fare ai giorni nostri quello che l'Inghilterra .faceva tre secoli addietro»), mentre i commenti sulla condizione dell'uomo al tempo del fascismo si fanno più espliciti, chiari, precisi, come quelli che pronuncia Edoardo Lentini il quale dopo essere riuscito a diventare podestà perde la carica e la tessera per aver messo in dubbio la virilità di Hitler. «L'essere gerarca e il non essere iscritti al fascio sono apparenze e inezie in confronto alla nera infelicità in cui saremo costretti a vivere sia facendo i gerarchi che rimanendo a casa per i fatti nostri». Questo Edoardo Lentini che per amore di carriera dovette finire «col giudicare intelligente Capàno»; che si rende conto come la condanna dell'uomo, la stolida miseria del tempo consistesse soprattutto nel fatto che bisognava «mentire per poter dire la verità». La comicità quasi sparisce, subentrano la rara malinconia e la disperazione, lo stupore, il rammarico e il dolore, quasi che Brancati in quest'opera di perfetto equilibrio, fosse riuscito in un colpo a ritrovare per l'ultima volta e per intero, a raccogliere e addensare le sparse e molteplici fila delle sue immagini e fantasie, e, insieme, a liberarsi di tutti i suoi rimorsi. La fine del romanzo è un'amara catarsi. La concomitanza della morte di Alfio Magnano sorpreso dal bombardamento in una «casa», e della morte per ustioni del federale Capàno, identifica nell' estrema rovina gallismo e fascismo, contemporaneamente segnandone la conclusiva parabola che già illividisce nei sinistri bagliori della sconfitta. E’ la prova è che, finito il fascismo, Brancati mette mano a Paolo il caldo dove il gallismo rovina, si rivolta a se stesso. Non facciamo fatica ad ammettere che Brancati sia stato fascista nella giovinezza; eppure non c'è scrittore che. sia stato così intimamente antifascista. Non poteva essere fascista chi guardava la vita con ironia e struggente tenera malinconia, se uno dei caratteri (o non caratteri) del fascismo fu esattamente la mancanza di ironia e il gusto del grottesco e del retorico. Brancati superò ben presto il fascismo: «A vent' anni se ne guarisce» ha scritto nel Diario. Ed è perciò per una specie di doppia esperienza che Brancati ne parla: per l'esperienza di chi, da non fascista, è vissuto sotto il fascismo. «Chi ha sperimentato una qualunque sorta di "fervore fascista", di "misticismo dell'azione", ecc. - scrive nel Diario -, e lo ha poi superato, ha il privilegio di poter confrontare fascismo e antifascismo nel vivo di se stesso, come chi paragoni il proprio braccio paralizzato con l'altro pIeno di energia: saprà bene cosa rispondere ai sofisti, quando gli diranno che salute e paralisi sono la stessa cosa». Non sappiamo se sia stato un caso che proprio a Brancati, a uno scrittore dell' estremo lembo del continente europeo, sia toccato in sorte di essere vittima e testimone di una decadenza. Le civiltà hanno sempre segnato le loro agonie con il flusso spavaldo del sesso, tra clamori di pretoriani. Brancati per alcuni anni visse la sua amara avventura pretoriana: ne uscì, e con chiari occhi quasi di barbaro, con la malinconia di tutti coloro che sono accampati presso la morte, poté cogliere il preannuncio di una fine. Un gusto tenace di morte segue i suoi personaggi, e l'odore del mosto sembra celare e indovinare l'odore della putrefazione. Il fascismo e il sesso restano i modi della parabola brancatiana, crepuscolo e notte, una notte dove solo vivono gli ossessi - i personaggi di Brancati, di chi ha colto l'estrema, disperata disgregazione di un mondo, senza volerlo, forse, ma appunto per questo in grado di rappresentarla con innocenza e più di verità.
* *Apparso su «L'Ora», 2 maggio 1972 con il titolo Tra ironia e rivolta: la doppia esperienza di Vrtaliano Brancati in Sicilia durante il fascismo. Gli anni dell'alalà.
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