Sebastiano Addamo: Le “alternative" di un poetadi Rita Verdirame |
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Il "lupo dell'Etna". Con questo epiteto affettuoso Vanni Scheiwiller amava definire Sebastiano Addamo, intellettuale schivo ed austero, letterato impegnato a sondare memorie e lacerazioni individuali e storiche, poeta dalla cifra autenticamente originale, la cui attenzione alle modulazioni più innovative della produzione novecentesca non si è mai svolta sotto il segno del manierismo, della sudditanza alle mode e della ricerca del successo editoriale. Il saggio che introduce Alternative di memoria, la plaquette edita nel '95 proprio da Scheiwiller che raccoglie i versi composti tra il 1975 e il 1985, rivela lo spessore del pensiero poetante di Addamo fin dal titolo, di grande pregnanza semantica e di notevole significanza poetica: Trattenere la luce obliqua e morente del mondo. Si tratta di un monologo, una confessione, una interrogazione sulla poesia e sull'unico fine che questa può proporsi, cioè comunicare a dispetto del mascheramento insito nell'atto linguistico, stabilire un contatto tra il parlante e il suo destinatario aggirando la frustrazione del non senso attraverso un atto linguistico assolutamente "gratuito"; è nella sua "gratuità scrupolosa" che l'operazione poetica consuma il suo destino e il suo intrinseco valore, in "un mondo nel quale tutto è merce e valore di scambio", infatti, la poesia non può essere altro che "perdente". La poesia vive su un paradosso inestricabile, anzi è questo paradosso medesimo: da un lato il poeta trae titolo di legittimità dal fatto che il linguaggio della poesia non sia reificabile, il che, però, significa che si tratta di un linguaggio non immediatamente fruibile e comunicabile; ma dall' altro si chiede per la poesia uno status e un'accoglienza a tutti i livelli. Inoltre è propria del poeta una nicciana "inattualità", che lo allontana dalle secche della contemporaneità consentendo al suo "messaggio in bottiglia" di abbandonarsi al corso delle correnti, fino ad approdare a qualche lontana imprevista insenatura. Il lettore della poesia sarà sempre un fruitore fuori dal tempo, pronto ad uscire dalle coordinate dell' hic et nunc e a rischiare l'azzardo dello spaesamento. Difficoltà, impaccio, impotenza della parola... sono concetti affrontati da Addamo anche nelle splendide pagine de Le abitudini e l’assenza e nei saggi di Oltre le Figure (pubblicati da Sellerio rispettivamente nel 1982 e nel 1989), dove emerge l'attenzione verso alcune costanti tematiche della sua narrativa, che lo stesso autore indica nella breve premessa: mistificazione, silenzio, solitudine. Nel volumetto si affronta senza infingimenti il rapporto dell'uomo con la vecchiaia, la malattia e la morte, motivi che la società postmoderna tabuizza e rimuove, forse perché, come lo scrittore icasticamente dichiara, "il timore della morte nasce da mancanza di vita, pensabilmente è il corrispettivo di una vita non pienamente vissuta, dunque non pienamente esaurita". Nel capitolo dedicato a Colera e letteratura, le osservazioni di Addamo sono molto acute e precise, soprattutto in relazione all' analisi del comportamento umano di fronte al drammatico accadimento dell' epidemia e del contagio (sulla scia della lettura camusiana della "peste"), e all'indicazione delle modificazioni linguistiche indotte dall' evento tragico. Il titolo completo del capitolo è Colera e letteratura (la morte collettiva e l'immaginario) ed è incentrato sulla terribile epidemia colerica che investì la Sicilia nel 1837. Il morbo asiatico - come allora era definito - che in quella occasione mieté tante vittime da segnare profondamente l'immaginazione dei contemporanei e da trascorrere in non poche pagine narrative, come quelle di Vincenzo Linares, diventa spunto di una riflessione che investe le strutture profonde, l'intero universo simbolico dell'individuo: "l'immaginazione, provocata e dilatata dal terrore, va fuori di sé, si solidifica e si oggettiva, raccoglie su di sé tutto il furore, la rabbia, l'ansia inquieta di cui l'uomo è invaso". D'altronde, anche negli altri saggi, dedicati ai letterati siciliani (Brancati, Lanza, Vittorini, Bufalino…), Addamo individua il marchio di una "perenne inclinazione alla morte, di estatica contemplazione e di una sorta di immaginazione contorta e sovvertita",a cui egli stesso peraltro non si sottrae. Il senso tragico della vita e il rispetto per la morte che pervadono queste prose, sviluppandosi sul piano teoretico, costituiscono il corrispettivo di quanto lo scrittore ha realizzato sul piano narrativo autobiografico nel Giudizio della sera del 1974 (romanzo con cui vinse il Premio "Brancati Zafferana"nel1975). Un libro di formazione, lo ha definito l'autore, il libro dell'educazione sentimentale e della iniziazione sessuale, difficile da scrivere dopo la generazione dei narratori degli anni Trenta che avevano affrontato i medesimi temi con partecipazione vibrante; si tratta di nomi, noti e meno noti, ma comunque che fanno parte della storia culturale catanese tra le due guerre: Ercole Patti, Antonio Aniante, Titomanlio Manzella, Vito Mar Nicolosi, e su tutti Vitaliano Brancati. Addamo chiude questa parabola, suggella questa stagione con un parricidio, cioè uccide la cultura dei padri per procedere verso una nuova idea di letteratura, dove la caratura autoreferenziale scavalca la remora del realismo per entrare nell' ampio e arioso territorio della metafora. Come ha evidenziato Enzo Siciliano in un ritratto a caldo dettato a pochi giorni dalla scomparsa dello scrittore lentinese, il realismo di Addamo è passato al filtro di una meditazione intellettuale, filosofica, che sostanzia tutta la sua produzione svincolando la dall'ipoteca della mimesi per ancorala a una dimensione di allusività antilirica, spesso rigorosamente epidittica. Leggendo la descrizione della Catania bellica in cui lo scrittore di Lentini si trovò a vivere in quegli anni appare evidente il meccanismo che permette all'esibito compiacimento descrittivo naturalistico di virare in una direzione antielegiaca e antinostalgica, del tutto esente da modulazioni retoriche, incupito dai toni di un disarmonico espressionismo che distorce immagini e ricordi per poi slargarsi, con scarti in1provvisi e senza segnali premonitori, in interrogazioni di filosofica ampiezza, densamente critiche, proprie di questo letterato che è a un tempo pessimista ma non nichilista, raisonneur ma non illumini sta, né tanto meno chiuso nel narcisistico arrovellamento del cerebralismo. " Ma fuori era ogni giorno peggio. Come se un coltello enorme avesse improvvisamente staccato la scorza che la copriva, la vita apparve più nuda, opaca e chiusa. Si andava per Catania e le strade sporche, le aiuole delle villette tutte rovinate, le fontane delle piazze senz'acqua e zeppe d'immondizie, tutto divenne guerra [...]. Sopravvem1e l'odore di piscio. Inopinatamente, senza alcun preavviso, dilagò, s'impose, si impossessò della città [...] erano i cittadini catanesi che insensatamente prendevano atto di quella malattia che la guerra era, innaffiando e insozzando di liquido giallo renale i suoli pubblici e privati. Finì la decenza, il decoro, il pudore, il rispetto [...]. L'analità era espressione della guerra e simbolo dislocato del rifiuto di essa". Gli anni Ottanta sono segnati per Addamo da questa oppressione .materica; è come se lo scrittore si imponesse una ctonia discesa agli inferi del deperimento, della corruzione della fralezza e precarietà e, solo dopo aver raggiunto questo fondo, egli si sentisse pronto per intraprendere nuovi percorsi. Ne Le Linee della mano (stampato per i tipi di Garzanti nel , 90), per esempio, c'è tutto un aggrovigliarsi di "paesaggi di sangue", di "corpi pesanti", di "poltiglia del divenire"...E' in queste poesie composte nel quadriennio 1983-87 che verifichiamo l'immersione negli abissi della provvisorietà dell'umano, nella corporeità e negli aspetti meno "patinati" e gradevoli di essa. Addamo lo mette in evidenza quasi provocatoriamente soprattutto in una poesia della silloge, dove è attivata una corrispondenza metaforica intessuta di metonimiche corrispondenze e di ellittiche analogie tra il complesso organismo del corpo umano e l'ingegneristico assetto di un palazzo, entrambi, manufatti umani o divini che siano, sono destinati al decadimento, sono congegni dai complicati ingranaggi meccanico-chimici "disponibili a deperire": Sul retro dei palazzi nelle zone occulte delle facciate serpentina tra chiazze d umido corre ramosa la trafila dei tubi il turbolento intrico di acque chiare e nere, le une salgono le altre scendono (la cloaca, il basso, l’infero), poi si confondono, risalgono di nuovo e ridiscendono lungo il circuito inarrestabile vene mobili e asimmetriche d'un corpo sospeso in aria immobile nel transito degli anni -le crepe, le screpolature, la ruggine vorticosa- già disponibile a deperire. Il tunnel senza luce in cui si addentra l'autore ha ovviamente una sua consistenza intima, una sua realtà autobiografica, allusa pudicamente - quasi criptica confessione - e sinteticamente, ma con una precisione trattatistica, nell' anamnesi e nei sintomi psichici che preannunciano stati d'animo e sofferenze attraverso l'immagine metaforica (e ossimorica) delle farfalle: Anzitutto le trovi d'improvviso, sembrano allegre. Salgono dal basso, da qualche parte, dal lato oscuro. L'inclemenza del giorno a volte le mette in fuga, d'in verno spariscono.- Folle flora animata. Le grandi ale già cautamente annunciano l'ombra che sono.
Il passaggio dall'autobiografia almeno apparentemente fattuale del Giudizio della sera all'autobiografia interiore dei libri successivi implica un viaggio - ancora una volta la metafora è trasparente - intrapreso alla ricerca delle ragioni profonde, del senso dell' esistere. Un viaggio spirituale e interiore, stanziale ma non per questo meno faticoso, anzi più spossante, che si lascia alle spalle l' insaziata curiosità dell' esotico caratteristica del cronista odeporico, acquisendo viceversa una cifra meditativa nei racconti di Non si fa mai giorno (1995): Poi si parte, generalmente in treno. Per evadere, per fuggire, per cambiare aria [...] forse i veri viaggi restano sempre quelli intorno alla propria stanza. E non c'è mai un ritorno, nulla rimane identico, né chi ritorna e neppure chi aspetta. Due estraneità non fanno un ritorno: colui che viaggia, lo fa per mutare; e colui che aspetta muta lo stesso, poiché tutto scorre. E tutto corre verso la fine: "...la giornata è finita. /La giornata è pronta per la/buca", scriveva il poeta in Alternative di memoria, caricando l'isotopia tematica e semantica del "viaggio" di un senso struggente tramato di irrecuperabile spostamento; di una velleitaria ricerca senza meta, destinata a non trovare né approdo, né senso, né pacificazione o rasserenamento.
In Non si fa mai giorno racconti si alternano a parabole e prose morali che attraversano la storia presente osservata nei suoi aspetti meno caduchi. Per esempio, La mano tagliata propone il leitmotiv della giustizia e della relazione tra morale e diritto. Altro tema esplorato e quasi ossessivamente ridondante è quello della casualità, del ruolo fondamentale che essa occupa nel disegno incoerente, imprevedibile e non consequenziale dell'esistenza, della insignificanza degli eventi, che indipendentemente dall' importanza e dalla gravità che li qualifica, si ripropone come invariante nel cammino di ogni uomo. Nella visione della vita di Addamo è assente la rassicurazione teleologica, l'ordine con cui tentiamo di attribuire un' organizzazione al caos del nostro percorso esistenziale nasce da un atto menta1e arbitrario e solo a posteriori nell'"alternativa della memoria".
Tuttavia, pur fermo in questa dolente e irrimediabile consapevolezza del non senso della vita, lo scrittore non s'abbandona a un narcisistico cupio dissolvi; resta costante e solida in lui la certezza della nobiltà del “mestiere del letterato" e della primaria funzione dell' arte che - secondo l'espressione di Adorno - deve far perdere la pace con il mondo e insinuare la discordia. Non diversamente l'artista - osserva polemicamente Addamo nella prefazione alla raccolta di saggi del 1978 sulla letteratura contemporanea I chierici traditi trasparente rovesciamento del notissimo titolo di Benda Il tradimento dei chierici - deve evitare la tentazione di arroccarsi nella cittadella di una "letteratura della forma", poiché in questo caso egli correrebbe il rischio di guadagnarsi "in nome della guerra dei linguaggi una propria squallida pace". Tutto il contrario di ciò verso cui tendeva Addamo, "uno scrittore di grande insuccesso", come egli con un pizzico di civetteria e con garbo autoironico amava catalogarsi, o meglio, come a noi più piace definirlo, un grande scrittore incurante del successo. Il mio ricordo di Sebastiano Addamo è legato a una sensazione duplice: la luce e l’ombra. Prima di conoscerlo personalmente per me, era solo un nome quello pronunciato sempre con stima affèttuosa da Antonio Corsaro, che aveva affrontato con lui l’avventura della rivista "incidenza” una delle esperienze culturali più innovative e sprovincializzanti della vivace pubblicistica catanese tra gli Anni Cinquanta e Sessanta; ma lo conobbi personalmente solo un decennio dopo. Il nostro primo incontro risale a più di vent’anni fa, avvenne infatti in occasione di un'intervista - curavo allora per una TV locale una trasmissione culturle con il compianto Massimo Caporlingua. Sotto la luce impietosa e abbagliante dello studio televisivo lo scrittore appariva a disagio, lui così schivo e umbratile nell’atteggiamento, con la sua parola meditata, con le sue risposte argomentate pacatamente e insieme ferocemente polemiche proprio contro la televisione, che pur in quel momento di lui si occupava; “ il mondo della televisione ci sovrasta; essa legittima quella modernità che a sua volta la legittima”. L'ho rivisto qualche anno dopo, questa volta nella penombra accogliente del suo studio, solo animato dal sommesso brusio delle “voci” flebili e antiche provenienti dai mille e mille libri della biblioteca; fiori, il sole feroce del luglio catanese e il rumore di un presente indaffarato, chiassoso e inarginabilmente invadente. Poi ancora, nel ‘95 a Valverde, in occasione degli incontri organizzati dal “sindaco-poeta” Angelo Scandurra: io presentavo le poesie che egli aveva raccolto nella “plaquette” A1lternative di memori, connettendo i fili di quei versi con i saggi (penetranti i suoi giudizi su Vittorini e altri scrittori contemporanei) e le prose narrative, in particolare i racconti di “Non si fa mai giorno” pubblicati da Sellerio proprio in quella data. L’autore stava attento e silenzioso, quindi intervenne a confermare, chiarire, puntualizzare via via infiammandosi nel parlare di letteratura e dei suoi auctores. Un dialogo che continuò tra noi, nei mezzi toni crepuscolari ( “la luce obliqua e morente del mondo”) attraversati a tratti dall’aria profumata della campagna etnea. E ancora tempo di poesia, il nostro? “e” perché i poeti?”. Erano queste le domande che lo assillavano, su cui si macerava e dinnanzi alle quali si poneva con energia quasi rabbiosa, non rassegnandosi a vederla fragile e perdente, la poesia; e inesorabilmente solo il poeta. Da quella sera non l’ho più incontrato; solo qualche telefonata, sempre all’insegna di un ascolto attento da parte mia, e dalla sua di una difesa orgogliosa del proprio essere scrittore, che non deve né può garantire nulla, non ha risposte da fornire, può solo affrontare la scommessa, e 11 rischio, della sua diversità, perché, come Addamo stesso ha scritto, la sua “funzione è di non avere alcuna finzione”. |
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