La storia può essere lontana come favola; una
retrospettiva di ciò che è stato, un interminabile cimitero. Essa non va da
nessuna parte, non porta in nessun posto.
Cos'è la storia? Talora è intesa come profezia del passato; o può essere una
metafora del presente.
Credo che in questa seconda valenza, vanno visti alcuni romanzi di argomento
storico di scrittori italiani pubblicati in questi mesi.
Per esempio: Pece greca di Luigi Malerba, pubblicato da Mondadori. Ha a
oggetto il lontano impero bizantino o, meglio, la burocrazia
politico-amministrativa che lo governava. Una burocrazia che si era
sviluppata come una immensa pianta in cui lo stesso impero si identificava e
si risolveva, il cui solo scopo sembrava di preoccuparsi a permanere, a
riprodurre perpetuamente se stessa.
Una macchina enorme del tutto scissa dalla vita e dal destino dei sudditi.
Un po' come si dice che stia accadendo in Italia, dato il distacco sempre
più palese della classe politica rispetto ai bisogni e alle esigenze dei
cittadini.
Ma con tutto questo, l'impero bizantino durò mille anni.
A onta di questo comportamento della burocrazia, o a causa di esso? Può
darsi sia un bene che i politici non si occupino della gente.
C'è il romanzo: La Chimera di Sebastiano Vassalli, pubblicato da Einaudi, e
ha a oggetto il Seicento italiano, il tempo della Riforma e della
Controriforma, dei processi e delle torture, di terrori e di vittime.
Vassalli si occupa di una di queste vittime, Antonia, accusata di
stregoneria a causa di certi vasetti di erbe, a causa di certi capelli, o
«crini» di color rossiccio che forse erano di Satana; o perché era bella,
perché aveva incontrato qualche uomo. Venne suppliziata e uccisa.
Dacia Maraini col romanzo: La lunga vita di Marianna Ucrìa, pubblicato da
Rizzoli, si occupa di storia e di una donna, appunto Marianna.
Il tempo è la Sicilia degli autodafè dei nobili, dei delitti e delle
miserie. In controluce appare David Hume, richiamato nei suoi testi che
trattano di un razionalismo scrupoloso e ardito, quasi a rendere più oscuro
il tempo oscuro di quella nobiltà palermitana a cui Marianna apparteneva. E
c'è Palermo, i suoi palazzi, la gente e la sua folle nobiltà, i riti di
questa con funerali e matrimoni che duravano nove giorni, e anche le
Catacombe dei Cappuccini dove i nobili morti vengono imbalsamati, rivestiti,
appesi a un chiodo a fingere l'eternità che non c'è.
E la campagna di Palermo, l'arte sapiente di una cucina fastosa, Bagheria e
le sue splendide ville, compresa la villa dei Palagonia con le sue stranezze
che sembrano confutare il razionalismo del Settecento e in un certo senso lo
portano alle estreme conseguenze, lo ribaltano fino alla follia. Il libro
comincia con un viaggio in carrozza da Bagheria a Palermo e con una visita
al carcere della Vicaria con le finestre «tutte uguali, irte di grate
arricciolate che finiscono con delle punte minacciose»; il libro termina con
una conclusione diciamo inconclusiva se la risposta che si cerca ridiventa
una domanda, «ed è muta».
Nel mezzo c'è la storia di Marianna, figlia del duca Ucrìa, la sua storia
esterna e quella segreta delle umiliazioni, dei soprusi, degli ardori, dei
pensieri e dei desideri, delle passioni e delle rimozioni, dei figli avuti
in un rapporto matrimoniale arido dove perfino una carezza era
«inammissibile»:
Ma è pure la storia di una famiglia, di un costume, di un certo modo di
vivere sfavillante e cupo.
Senza parere, a poco a poco la Maraini riesce a introdurre la tematica della
condizione femminile, un filo denso che permea di sé le vicende, ne
costituisce la ragione che dà a esse senso e necessità.
Marianna a cinque anni venne stuprata dallo zio e a causa del trauma subìto
diventa muta, «mutala»: a tredici anni va sposa al medesimo zio il quale
così diventa «il signor marito zio». È la condanna di una condizione che
diventa destino.
Ci sono osservazioni finissime, come quella intorno alle mani delle
nobildonne: «Mani che, pur maneggiando l'oro e l'argento, non hanno mai
saputo come arrivasse fino a loro. Mani che non hanno mai percepito il peso
di una pentola, di una brocca, di un catino, uno straccio... Hanno forse
indugiato qualche volta sul costato piagato di Cristo in croce, ma non hanno
mai percorso il corpo nudo di un uomo, sarebbe stato considerato indecente
sia da lui che da lei. Certamente si sono posate, inerti, sul grembo, non
sapendo dove rintanarsi, che cosa fare».
Concomitante, e atroce dentro il decoro, si profila la sorte di queste donne
«dall'intelligenza lasciata a impigrire nei cortili» ...Di madre in figlia,
di figlia in nipote, Sempre intente a girare intorno ai guai che portano i
figli, i mariti, gli amanti, i servizi, gli amici, a inventare nuove astuzie
per non farsi schiacciare. ..Sposare, figliare, fare sposare le loro figlie
che a loro volta si sposano e figliano... voci dell'assennatezza familiare,
voci zuccherine e suadenti che sono rotolate lungo i secoli conservando in
un nido di piume quell'uovo prezioso che è la discendenza» . Strumenti,
veicoli, pezzi accuratamente disposti nel mosaico, funzioni quasi
invariabili, esistenze necessarie, produttrici e dimenticate, sono le donne
che plasticamente popolano il bel romanzo della Maraini, un'angoscia che
serpeggia, piega verso la malinconia perenne, verso la tristezza, verso la
solitudine più cieca.
Il fatto che il personaggio-protagonista sia muto, è la escogitazione più
producente della scrittrice. Una metafora dentro la metafora.
Marianna non parla, è «sempre dietro alle parole», non sente, però legge e
capisce i gesti. Marianna ha un rapporto mediato e indiretto col mondo, con
la casa, con la gente.
È la sua fatica di vivere. È una prigioniera.
Sebastiano Addamo
- La Sicilia, 11 maggio 1990
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