Di poeti e poesia, ovvero la contemplazione della mortedi Maria Nivea Zagarella
|
|
I frammenti di esperienza riproposti nei testi di narrativa e di poesia di Sebastiano Addamo restituiscono sempre e soltanto la stessa immaginesimbolo: l'occhio vitreo della Morte, "certa, anonima, puntuale" (La zia canuta). Il messaggio, o meglio l'assenza di messaggio, è tutta qui, dal primo romanzo Il giudizio della sera, (1974), che evoca sin dal titolo il consuntivo di una vita, fino alle raccolte poetiche degli anni '90. Le vicende dei quattro ragazzi, Pippo, Carietto, Gianni e Gino, vicende che trovano il loro lucido regista in Gino, io narrante e alter ego dell' autore, nonostante il breve arco cronologico in cui si sviluppano (dall' autunno del 1940 all'inizio dell'estate del 1941), di capitolo in capitolo, sono una frequentazione - per così dire "dilatata" con la Morte. La sua ombra aleggia sui luoghi e sulle persone, sui loro corpi, gesti, parole e colora di orrore e di fosco una educazione sentimentale fallimentare. La realtà negativa, che i giovani studenti di liceo, inurbatisi dal paese d'origine a Catania, vengono gradualmente scoprendo, non si esaurisce nelle menzogne del regime fascista e della sua propaganda ("Le faccende di guerra si imbrogliavano e ci imbrogliavano sempre più: Malta, anzitutto di cui non si diceva più niente, tranne qualche sporadica azione e monotona dei nostri aerei... E delle ritirate non eravamo persuasi, che il bollettino enfaticamente qualificava strategiche", cap.7), nel crescere e dilagare della miseria ("La guerra la sentimmo. Cominciammo a vedere le file di gente davanti alle rivendite, sempre più lunghe, fitte, urlanti, le vetrine dei negozi quasi vuote mentre le rivendite di alimentari non aprivano tutti i giorni e questo voleva dire che non c'era roba da dare nemmeno con la tessera... Il disinteresse per le notizie andava di pari passo con la miseria che dilagava", cap.11), nella durezza di una guerra che si prolunga oltre il previsto ("c'era guerra, soltanto guerra, guerra fatta di avanzate, di soste, di ritirate, come le definiva il bollettino e ci ripeteva il professore Cultrera, o sconfitte, come ormai la gente mormorava, guerra fatta di impazienza, di irritazione e di scoramento, fatta anche di morti", cap.11), o ancora nella terribilità di una morte fisica sperimentata da vicino come ingiustizia e fato ("La morte non era più una immagine, e non solo una notizia, poiché cominciava a riguardarci ed era offilai un' appartenenza. Parlavamo a monosillabi. La morte era venuta e conoscevamo il suo potere nientìficante e la nostra soggezione a essa, la nostra impotenza e la sterilità dei gestì", cap. 13), in altre parole non si può circoscrivere a quel preciso contesto storico -locale; investe anche e soprattutto la Morte "spirituale" dell'umanità, l'irredemibile vuoto ideologico e morale, sconfina nella condizione esistenziale e denuncia il Male stesso di vivere. Ad apertura di romanzo, fin dalla prima pagina è in atto quella costante, programmatica, rancorosa ("rancore" è parola chiave ricorrente nei testi di Addamo, parallelamente a"terrore", "aleatorio", "scempio", "vuoto", "agonia","bizantino"...) degradazione di oggetti, ambienti, animali e annesso campionario umano, che, attraversando tutte le opere dello scrittore, è di per sé indicativa di una cupa, tragica visione dell' esistenza. La pensione catanese è "brutta, scura e umida", collocata in una "strada stretta e sporca", in un "luogo quasi sordido" dove ristagna "odore di cesso e di piscio di gatto che è più acido e greve del piscio umano, odore di putrefazione e di liquami infetti, odore anche di agglomerati umani, quell'odore che è nauseabondo e repellente per questo: perché nostro ed emanato da noi e intanto contraddicente a quanto catechismo e prediche pasquali e pastorali ci hanno insegnato che noi siamo, noi come è noto essendo spirito, anima, ragione, tutte cose che non fanno odore..." Il breve viaggio da Lentini a Catania approda subito all'inferno, un inferno che verrà sempre meglio precisandosi, ma di cui significativamente i ragazzi prendono possesso col "naso" nella assoluta latitanza, anzi inesistenza, di spirito, anima, ragione, sì, anche ragione, se l'assurdo è per Addamo l'illogica logica del reale e la Verità "la demenza oculata lo scrupolo - forse - d'un vivo" (Fuori regno). Dalle prime battute dunque la riflessione - analisi di Sebastiano Addamo è di tipo esistenziale; qui va cercata la specificità del suo sentire e della sua scrittura. Tutto il resto, sia la polemica circa la separazione a Catania fra il quartiere che "fa odore" e quelli "asettici, silenziosi... pignolescamente puliti", sia la puntualizzazione psicologico - sociologica circa "l'indaffarata estrosità" dei catanesi, il loro "laico gusto di vita", il loro "folle e caotico e quasi levantino affanno dietro alla ricchezza e al sesso", che vedono coinvolte tutte le classi sociali (patrizi, borghesi, iloti, cap. 1), sia la circostanziata definizione alla catanese di honimini (cap. l0 e 13) o l’etimologia fra colta e siciliana di intrallazzo con riferimento al mercato nero, sia infine la stessa comica stereotipia delle macchiette fasciste, quale il maestro Morabito dai molti figli fascisti, lupetti, figli della lupa, balilla, piccole italiane, "impettito e sussiegoso" nonostante il "pettino macilento", o del padre siculo offeso nella figlia, "forza della natura, belluinità senza ripari, divinità di giustizia e di vendetta", sfiora il vero nodo della problematica filosofico - esistenzialistica addamiana. Sono motivi che appartengono alla storia e alla cronaca di quegli anni e servono a creare il tipico colore catanese e siciliano, fra sciasciano e brancatiano per la vena ironica e la presenza del sesso quale "compenso del vuoto, della inedia, della solitudine". Ma tali note storiche e di costume, pur se contigue a una lunga e documentata produzione letteraria e filmica, recuperano originalità e pregnanza per l'atmosfera di tregenda carnale e di sabba funereo in cui sono calate. Ipereccitanti sono le fantasie erotiche dei quattro ragazzi; notturne e per nulla innocenti, anzi iniziatiche e petroniane le loro scorribande nei vicoli malfamati e la frequentazione delle prostitute; osceni le chiacchiere e gli indovinelli del signor Domenico; sguaiata e provocante la padrona della pensione sua moglie; traumatica e dirompente per quegli adolescenti la metamorfosi della signora Wanda; animalescamente livellata alla cruda, feroce soddisfazione degli istinti, fra cui quello primario della sopravvivenza, l'umanità, che non è solo quella dei bordelli e dei vicoli miserabili, se si tiene anche conto dei racconti di Palinsesti borghesi e de L'uomo fidato. Sesso, egoismo, danaro per Addamo sono la miscela esplosiva del vivere quotidiano e la sua strategia fantastico - narrativa si esercita a somatizzare l'infernale triade nei corpi e "nell'abito" esteriore dei personaggi, così da rendere immediatamente leggibili la corruzione e l'imbestiamento o il ruolo predestinato di vittima nella società dell' ingenuo e del debole. Il ragazzo Morico, poverissimo e di Scordia, è tarchiato, quasi grosso, con grossi occhi sporgenti e grosse lenti da miope; riflessivo e di "tetra pazienza" nello studio, per la morte del padre in Africa dovrà tornare a fare il contadino ("Era destino che dovessi fare il contadino"). Il cavaliere- ragioniere marito della signora Wanda, è brutto, ha la pancia, un volto ben rubicondo, esce di casa puntuale, fa sempre i medesimi passi, con il medesimo sguardo, la stessa sosta allo sbocco del vicolo per salutare la moglie: morirà suicida dopo che gli verrà brutalmente detto che è un "mantenuto". II signor Domenico invece, nei primi capitoli è secco, giallo, vizzo e magro, con gli zigomi sporgenti, la risata stridula, ironica, "sudicia", le gambe magre e bianchicce, inequivocabili segni di lascivia e astuzia; negli ultimi capitoli le sue truffaldine qualità interamente emerse grazie alla guerra e alla fame lo trasformano in un individuo ben sbarbato, tanto da parere più giovane, che fa sfoggio di vestiti nuovi, cravatte lucide e brillanti denti di oro. La padrona è alta, con grosse labbra sporgenti sempre violentemente dipinte, ha la voce aspra, un incedere "goffamente voluttuoso e molle", delle poppe che le sbattono esibite procacemente attraverso vistose vestaglie a fiori. Nel penultimo capitolo del romanzo con la sua carne "malata, sofferente, putrescente", con il suo "calore sudato malato perverso", con i suoi "senoni penzolanti come otri spenti", "le sue natiche enormi di un biancore osceno e opulento" costringerà Ginetto nel cesso all'amplesso, lo costringerà a quella "roba immonda chiamata amore, il miscuglio organico, barocco, sordido, piuttosto colante, pruriginoso, disgustoso; un'insalata chiamata pure vita; l'anima del corpo..." (cap. 13). Una scena analoga osservano, fra eccitazione e sgomento, i quattro adolescenti nel capitolo nono, quando scoprono il rapporto fra la signora Wanda e l'ufficiale tedesco: i due sotto i loro occhi iniziano"la vecchia straziante danza dell'universo, la vitale sordida oscena potenza dell'uno tutto che li possedeva e li esaltava". L'umanità desacralizzata, ridotta qui come altrove a mera entità biologica con escrescenze-bubboni di "eventi, dolori, terrori, sogni, incubi, azioni, reazioni" (L'uomo fidato), porta nella sua carne i segni della morte: le vene azzurre si configurano come "lunghi vermi", i capezzoli "crepati e oscurissimi" rimandano a qualcosa di "morto e di rappreso", il corpo è un sacco che "riempie ossa ammassate e macerate"; il vizio coniugato alla fame del fascismo e della guerra" "le prostitute affamate assalivano i passanti con voci sguaiate e fameliche, fameticanti ed ebbre come lupi, esseri pazzi e disperati", si fisicizza in un tanfo che è a un tempo di uomini e di bestie ("odore organico di piscio, di bestia e di esseri umani"…"odore di rossetto, di sudore, di donna"...), salendo da luoghi dove pullula una umanità che è assimilata dallo scrittore alla "melma oscena tenebrosa e virulenta di un torrente", o con lievi varianti a una informe "massa vistosa e oscena, disordinata e sudicia". Nei soggetti in cui la religiosità sopravvive, essa si deforma o brutalizza in paganesimo e empietà. La padrona "ingoia" la domenica nella messa delle nove l'ostia senza masticarla, la sua terribile casa in quel terribile quartiere è piena di "madonne e cuori di Gesù", di tutto "l'Olimpo cristiano" compresi i tre santi di Lentini, che con le "tre facce emaciate di bamboli" vigilano - scrive Addamo - "imbambolati e lattei nel cesso". Allo stesso modo la novena di Natale si dipana come un intreccio di puttanesimo, ubriachezza e devozione paganeggiante, che lo scrittore adulto e colto giudica una immobile nel tempo, e perciò barocca e funerea, "dialettica di vizio e di virtù, di malattia e di salute, di peccato e grazia, di giovedì grasso e venerdì magro..." (cap. 3). Un furore vendicativo trapela dalla penna di Addamo ogni volta che si sofferma a considerare ciò che i parroci chiamano Fede, e che egli invece cataloga, per i suoi monotoni e vuoti rituali, come una forma di superstiziosa impostura, di malata bigotteria, di autoritarismo repressivo con precise responsabilità storico-politiche (alleanza con il fascismo e con la D.C.). Si consideri la sequenza sarcastica sull'eucaristia, che è proibito masticare perché "ne può restare qualche pezzetto fra i denti, uscire fuori con uno sputo, Dio-Cristo sputato, un pezzetto di Dio - Cristo andrebbe chissà dove", eucaristia chiamata con cinica (o realistica?) empietà dal signor Domenico la "pastiglia del lunedì" di puttane e cameriere. L'antefatto di tanto furore e della "Morte" di Dio nel sistema di pensiero scettico e razionalistico di Addamo sembra debba essere cercato nel rapporto infantile col nonno paterno descritto ne Le abitudini e l'assenza, un vecchio che rendeva con le sue mani sanguinarie sterili le gatte e con quelle stesse mani tiranneggiava il bambino a comunicarsi e sciacquarsi la bocca. Idillico d'altra parte non è neanche l'ambiente familiare da cui proviene il sedicenne Gino: il padre è uno smidollato mitomane, sensibile alle avventure femminili, "senza mestiere né ruolo", salvo una tardiva, grettamente piccolo-borghese passione per un giardino d'aranci; la madre per contrasto è una sarta laboriosa,"puritana" nei costumi e fedelissima; le due zie, che hanno cresciuto il ragazzo fin oltre i dieci anni, sono anch'esse "angeliçamente signorine" e bigotte, ossessionate, per la misteriosa scomparsa del loro irregolare padre, dall' idea del peccato, perciò hanno educato il ragazzo "ad amare il cibo e ad odiare il vizio prima ancora di conoscerlo". Nella bocca delle zie il cibo preparato con "puntigliosa accuratezza" spariva "pulitamente ingoiato con la medesima felina pulizia con cui al mattino, ogni mattino alla prima messa ingoiavano l'ostia". Devozione e voracità, sesso e fede vengono dunque a saldarsi in una circolarità che si alimenta di frustrazioni esistenziali, paure ossessive, scompensi affettivi, declassando il bisogno religioso a una sorta per Addamo di magico esorcismo.. Fra chiusure paesane e inferno catanese, dove il linguaggio quotidiano, con contorno spesso sonoro di pernacchie, fiorisce in modo pittoresco, anche se unitonale di: "cornuti, figli di cornuti, bastardi, porci, cretine, puttane, troie, fessi", epitéti ricorrenti e equamente distribuiti fra sesso maschile e sesso femminile, fra soldati tedeschi e variegata fauna italiana, ciò che a un livello più alto suole configurarsi come Politica o Storia nel romanzo si appiattisce e sbiadisce. Il quadro storico del regime contamina ricordi autobiografici e stereotipi noti: gli inglesi vignettisticamente "scoglionati e vigliacchi", gli ebrei capitalisti, i comunisti incendiari e massacratori, il nazionalismo retorico dei morti-eroi, la beffa dell'autarchia con le scarpe di cartone pressato e i vestiti di erba, i professori allineati, la prostituzione, la fame, il mercato nero. Il disinganno soggettivo e il pessimismo risentito dello scrittore emergono negli a parte e nelle frecciate ironico-sarcastiche seminate qua e là, conclusioni dell' occhio esercitato e critico dell'adulto - Gino che non del disorientato studente sedicenne Gino sorpreso dal vortice dei fatti. Il marcio per Addamo non era solo nei fascisti, borghesi che avevano trasformato il fascismo da "convinzione" in "merce" e "difesa di merce", ma anche nelle lotte dei contadini aspiranti- proprietari contro i loro padroni (cap. 7) e nei velleitari tentativi rivoluzionari degli antifascisti "paesani" anch'essi borghesucci. L'opposizione agli uni (i padroni) e agli altri (i fascisti) non nasceva da una chiara ideologia alternativa, ma da un torbido miscuglio, paesano e provinciale, di "risentimento, invidia, rivalsa e ritorsione" (cap. 1l), rispondente a una difesa - rivendicazione di interessi egoistici e privatistici, e perciò fertile terreno di coltura di ogni clientelismo e trasformismo, tanto che all'atto della liberazione invece di "instaurare il nuovo ordine e rovesciare il vecchio", non si fece - conclude l'autore secondo la vecchia lezione di De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Sciascia che continuarlo sotto un segno cambiato. Gli attacchi non risparmiano neanche gli intellettuali antifascisti, esemplati nel professore Sanfilippo"un po' spaurito, un po' debole", accusati di avere attuato con il loro "nulla da dire" una fuga e non una "scelta" e gli intellettuali - per così dire - di professione, "così capziosamente liberali, così untuosamente liberali" da cadere sempre in piedi, come gli eroi delle leggende. La sporcizia, che dal capitolo dodicesimo dilaga ovunque a Catania, sommergendo e avvolgendo la città "in un plumbeo vapore fecale", una sporcizia che inizialmente è il solito odore di piscio emanato da chiazze di urina "sontuose e unte", successivamente si amplia a "straripare di merda" dai marciapiedi alla vasca delle fontane, dagli ingressi delle chiese e edifici pubblici fin sull' orlo delle grondaie, è metafora cruda, ispirata da Camus,fra surreale e realistica dello sfascio-scempio universale oltre che sintomo vistoso di una generalizzata ricorrente angoscia di morte. Con la sporcizia arrivano le mosche e le cimici; da cui la gente prende a difendersi con il petrolio, cosicché a Catania l'odore di "cimice e di bruciato" viene ad aggiungersi stabilmente all'odore di "piscio e di feci, e di morte". Poiché l'igiene è "ordine", gli escrementi fetidi evocano il disordine, il caos e 1'approdo collettivo al Nulla. Mentre la padrona in lotta con le cimici inveisce contro i ragazzi e i loro rapporti con le prostitute, difendendo in rapida successione "la sua patria, la sua casa, i suoi lari, l'igiene dei suoi letti, il candore delle sue lenzuola, il decorum..." il rabbioso-ironico climax ascendente smaschera proprio l'ipocrisia e l'insussistenza di quei valori. Il "giallo liquido renale" e la merda vanno insozzando suoli pubblici e privati, perché la gente rifiuta la guerra e il regime che l'ha voluta, ma Gino-Addamo su una eventuale escalation di sporcizia mette in guardia anche i cosiddetti regimi democratici, invitandoli a misurare dal livello di sporcizia il grado di tensione, di insoddisfazione, di aggressività repressa dei cittadini (Marco Trigillo ne L'uomo fidato materializzerà il suo "odio" nel vuoto ideologico e nella crisi economica degli anni Settanta con l' assassinio del capufficio). L'aggressività dei personaggi di Addamo si scarica contro l'esistere stesso, della cui inanità ogni nuovo fallimento storico è una ulteriore conferma, per questo la Morte, o il senso di morte, non è esorcizzabile in una qualsiasi positiva direzione. Scoperto il doppio volto della signora Wanda, Ginetto così riflette: "Era a una morte che stavo confusamente pensando, d'indignazione che avvertivo era sommersa da questo nuovo incerto sentimento, non sapendo ancora - non lo avevo capito - che tutto come per le omeomerie anassagoree è parte di tutto, tutto in tutto, nella morte immanente che avvertivo intorno a noi, nelle cose, nei volti della gente, nei discorsi della strada". Ogni acquisizione della ragione speculativa, ogni scandaglio della realtà storico - sociale, ogni scarto della ragione poetante si risolvono per Sebastiano Addamo in naufragio - contemplazione della Morte: "Memoria accumula e nientifica. La poesia è memoria del popolo. Un passo avanti nel nulla" (Di poeti e poesia). Dal primo bombardamento che sguinzaglia i ragazzi in via delle Finanze a quello che chiude il romanzo il viaggio di formazione dell' adolescente Gino e il consuntivo dell'adulto-Addamo si saldano sullo stesso cumulo di macerie polverose: all'età del parricidio, "ferrea, dura, chiara", non è subentrata nessuna nuova età, anzi una nuova fase "senza nome e senza scampo". Dal 1974 alle raccolte poetiche degli anni '90 (Le linee della mano, Alternative di memoria) le immobili categorie del mondo spirituale e poetico addamiano restano quelle consegnate a Il Giudizio della sera. Le opere cronologicamente successive rappresentano ora una ripresa, ora uno sviluppo, nella sostanza una riconferma. Le abitudini e l’assenza, anche se edito nel 1982, raccoglie in sè il materiale autobiografico momentaneamente estromesso da Il Giudizio della sera. I due testi si illuminano e si completano a vicenda. L'autore torna ai ricordi d'infanzia e campeggia la figura della madre, anche se vi trovano spazio altri familiari (il padre commerciante e cordialone, tre zii materni, l'inquietante nonno paterno, le zie massaie "spasmodiche") e il solito scemo (Alfio) o folli di paese (l'emigrante rovinato dal fallimento della banca, il misterioso carabiniere-zingaro) non meno inquietanti del nonno per i loro laceranti e ricorrenti urli notturni. Viene brevemente ripercorso il fascismo e nuovamente ridicolizzato attraverso le parole e le azioni dello zio Tullio e dello zio Oreste; si accennano altrettanto brevemente altri eventi drammatici, una siccità, un terremoto e si ricostruiscono usi e tradizioni del paese su uno sfondo di cultura e rassegnazione contadina, siglate dall'immobile angusto ciclo delle stagioni, il tutto attraverso una scrittura frammentata (qui più accentuata) che è tipica di Addamo, che rifugge dal periodare complesso, preferendo affidare effetti e suggestioni a enunciati brevi, spesso ellittici, giocati sulle iterazioni, riflesso del suo radicale pessimismo, che è a sua volta la ragione del suo itinerario inverso, dal romanzo alla essenzialità della poesia. Singolare è il rapporto che lo scrittore istituisce con la madre, usando il modulo narrativo del recupero memoriale più alla maniera proustiana di una discesa agli Inferi della coscienza (per capire le radici della nevrosi esistenziale), che alla maniera del Vittorini di Conversazione in Sicilia in cui sono più marcate le connotazioni politiche e socio logiche del "ritorno" è più evidenti le valenze simboliche. Fra madre e figlio, attraverso la reinvenzione della scrittura e l'alibi di una accorta memoria selettiva, e non proprio "spontanea", avviene una sorta di osmosi, che porta il figlio a riconoscersi nella madre e la madre quasi a prendere coscienza di sé attraverso il figlio, con la differenza tuttavia che la madre ha conservato fino alla vecchiaia qualcosa dell'indole fantastica e sognante della giovinezza (la "cavena azzurra" della sognata Capri, le nenie arabe trasmesse dalla radio amate perché evocanti il deserto), il figlio invece ha visto precocemente raggelarsi in sé ogni passione, . ogni slancio, anche se non esclusivamente come effetto indotto della tristezza rassegnata della madre. Dalle pagine infatti traspare il dolore di una giovinezza strozzata, quella della madre, (si fa riferimento a studi interrotti: a uno "slancio fermato", a una ruga -ombra misteriosa che vaga sul suo volto dalla guancia agli occhi). Completano il ritratto interiore materno una religiosità per nulla confessionale, consapevole invece della "oscurità", forse inesistenza, di Dio e del vuoto e dell' effimero a cui si riduce la vita di ogni uomo ("Più importante non è vivere, ma continuare a farlo") e una certa qual orgogliosa fierezza che ha reso la donna fedele alla sua individualità e vigile rispetto alle furberie altrui, comprese quelle fasciste (Il figlio ricorda che soleva dire: i monaci fanno gli abiti). Debitore dunque sembra lo scrittore alla madre, oltre che all'ambiente familiare e paesano, dei prodromi della sua perplessità esistenziale, del senso di umana impotenza di fronte alla morte ("Meno male che c'è Dio. Almeno esiste qualcuno con cui prendersela per il fatto che si debba morire"), del suo critico indifferentismo religioso, del suo stesso orgoglioso, sprezzante appartarsi dagli altri e dal mondo. Isolarsi è un atteggiamento caratteristico dei personaggi-protagonisti della narrativa di Addamo, da Gino a Favilla, a Enrico, al cronista di poco successo del racconto Il giorno in cui morì Chesmann, a Marco Trigillo, oltre che del poeta-pensatore Addamo, che fantasmaticamente sta sempre al di qua, nel chiuso di una stanza, separato da "muri", "vetri-finestra", "imposte", "grata" e se impatta gli altri, gli altri sono "la folla", amorfa, anonima: facce "assorte" che sbucano da un metrò, altrettanto "assorti" avventori notturni di bar o la gente distratta della "galleria"(Milano?), un divergere insomma di solitudini testimoniano i suoi versi. La solitudine e il dialogo con la Morte contrassegnano anche i tre racconti di Palinsesti borghesi, ai quali fa da sfondo il solito territorio di Catania, Lentini e dintorni, palude-acquitrino dell'anima, mai natura vitale L'impiegatuccio Favilla, confinato in un ufficio-ripostiglio, caldissimo d'estate, freddissimo d'inverno è un borghese piccolo piccolo, destinato come ogni altro individuo allo scacco esistenziale, anche se gli altri, "dementi felici", nella loro pragmatica e cinica inconsapevolezza e vitalità, supportata da sistemi "aleatorii", non se ne rendono conto. Favilla è stato dimenticato da una democrazia "distratta" fra le carte della burocrazia, mentre ha fatto fortuna il suo amico camerata federale "faccia di cazzo", evoluto da monarchico a democristiano. Convinto che nella vita bisogna essere "forti, spavaldi, vivi, temerari" egli vuole ritardare il più possibile la sua morte per carcinoma per assicurare la sua pensione alla figlia che ha generato con il suo "sangue slavato e distratto". Nel racconto si confrontano e dialogano due solitudini e due fallimenti l'impiegatuccio Favilla e il suo compagno di conversazione della panchina del viale degli uomini illustri, un professore che vive solo. L'uno ha la morte nel suo passato e nelle cellule malate del suo corpo (l'animale sonnolento che prima o poi si sarebbe svegliato, "scimmia feroce", "lamaì", "coltello"), l'altro nell' anima e nella cultura di cui è portatore: tutte le età - dice il professore-hanno avuto un profondo sentimento della morte, anche il Rinascimento, e naturalmente la Sicilia che "rende sterile e intorbida l'intelligenza dei suoi figli per un acre sentimento di Morte"; l’indolenza stessa di Catania che invita al "niente", alle passeggiate, alle chiacchiere banali è "uno spegnimento quotidiano che rende familiare la Morte". Quando Favilla muore, tagliando, ma senza poterlo più sapere, il traguardo del giorno che si era prefissato, alla figlia purtroppo non lascia nessuna nobile eredità (tranne la testimonianza del suo affetto): solo "la" pensione. Il suo scetticismo e disincanto gli hanno fatto capire da tempo che nel mondo il "denaro è potere" e non solo, ma anche "valore, vigore, forza, virtù, bellezza", come si legge ne II giudizio della sera, dove il signor Domenico "esisteva in quanto esisteva il denaro". Allo stesso modo per il padre,di Gino il giardino d'aranci era "ingresso nel mondo e consistenza di ceto e di censo", e solo utile occasione di "maggiori introiti" e di "pasti straordinari", era il Natale per la famiglia di piccolissima borghesia mercantile dello scrittore ne Le abitudini e l'assenza. Perciò Favilla resiste, per garantire la figlia nella feroce darwiniana lotta per la vita. Quanto al suo personale destino, per Favilla l'approdo oltre la morte è il Nulla: "il sudore era l'ultima traccia della sua fatica, dato che ogni fatto dello spirito si conclude in una variazione organica". "Vita banale", "morte banale", "scrittura disutile" poiché si limita a vigilare l'assenza, sono stilemi cari ad Addamo, che nelle loro variazioni sinonimiche rimandano tutti allo stesso nucleo ideologico: "L'uomo è origine e nulla. Il proprio senso, la sua assenza" (Ipotesi anteriori). Nel racconto "Lo zio Isidoro" banalità, egoismo, "assenza" vengono ancora una volta somatizzati. Lo zio Antonio, ricco proprietario terriero, è alto, robusto con i denti grandi e neri di nicotina, vitale e sicuro di sé; il padre di Enrico, imprenditore edile e laureato, è invece, dato il suo ingresso nella borghesia anche intellettuale, piccolo, snello, freddo e elegante e sa coniugare l'antica parsimonia (o avarizia?) contadina con l' ostentazione borghese. Egli condivide lo stesso attaccamento alla roba della madre e della moglie, che sono in gara nell' apparire con la cognata continentale e che come tutte le altre mogli borghesi della narrativa addamiana (la moglie di Favilla, la Rosetta di Trigillo) non vanno oltre lo scrupolo ossessivo della pulizia e l'accumulo-esibizione di beni di lusso e di consumo, variati in Rosetta da qualche greve rigurgito sessuale. Anche per questa famiglia il danaro è potere e non è casuale, ma emblematico, che i due ricchi fratelli si siano costruiti una trimalchionesca tomba di Famiglia con cesso annesso ("Essi sapevano perfettamente da dove erano venuti e dove sarebbero morti"). Senza dogmi e senza certezze e perciò irregolari, trasgressivi, senzameta sono il diciottenne Enrico (re incarnazione di Ometto, fra inibito e ribelle) che a detta della nonna è un "posapiano", nè carne nè pesce e quindi nell' aspetto esteriore "pallido", "timido", e lo zio Isidoro, spiantato, indebitato, malato, ubriacone che vive, e muore, circondato dai suoi cani, nel disordine e nella sporcizia. Enrico preferisce frequentare lo zio, perché recalcitra al sistema di pseudovalori della sua famiglia: la mentalità mercantile, la bigotteria religiosa, il moralismo farisaico, l'educazione autoritaria. Dagli attacchi al dogmatismo deduttivo dei teologi cattolici, messi sullo stesso piano dei teorici dogmatici della Forza fascista e dell'infallibilità del Duce, ne Il giudizio della sera, al nonno tirannico de Le abitudini e l’assenza che ha trasmesso al bambino l'idea di un Dio "forza dispotismo arbitrio" (inducendo lo per ribellione al sacrilegio dell' ostia), alla madre, nonna, padre di Enrico, altrettanto dispotici e smascherati dal gesto osceno dell' Isidoro morente, c' è nelle pagine una continuità di furore tra nevrotico e ideologico che, al di là di certe stereotipe schematizzazioni e contrapposizioni, riconducibili a tanta letteratura novecentesca, da Kafka a Svevo a Gadda a Moravia, chiama in causa ancora una volta l'io soggettivo dell' intellettuale Addamo, in bilico fra autobiografismo coattivo, suggestioni letterarie, condivise proposizioni filosofiche. Anche Enrico ha assimilato Dio a un despota arbitrario e assoluto: Dio era "il mondo che andava bene, il mondo che progrediva lentamente e sicuramente. E in questo progresso c'ero io, ma semplice deduzione - riflette Enrico- a priori da un principio indiscusso e indiscutibile". Con lo zio Isidoro invece si vive fuori della norma, dell' apparenza, della maschera, nella libertà, una libertà quella di Isidoro che alla fine si rivelerà al giovane come una tetra solitudine, una lunga agonia. L'angoscia di morte ha infatti attraversato tutta l'esistenza dello zio Isidoro, dalla "noia" che lo aveva fatto fuggire verso la guerra e la Germania, alla vita al suo ritorno tra le puttane, conseguenza del tradimento della moglie durante la sua prigionia. Valenza simbolica hanno le due prostitute del libro La visita di Toulouse Lautree, la vecchia e la giovane, mostrato dal morente al nipote, e il castello di sabbia fatto un giorno e subito disfatto dallo zio, anticipando il naturale intervento distruttivo della marea: il nascere e il morire per Isidoro e per Enrico-Addamo tornano a saldarsi, come ne Il Giudizio della sera, in un cerchio di vuoto e di nullità. "La vita - conclude il racconto - una volta riconosciutala non sempre siamo in grado di accettarla: il resto non è che una scorreria nei giorni, un saccheggio quasi infame del tempo; e ironia, e un lento assillante soggiorno presso la morte". Altrove, in La metafora dietro a noi (1980), leggiamo, con ripetitiva sintomatica ciclicità: "Ci vuole coraggio a vivere" (La parola poetica). Altrettanto solitario e portatore in sé del "fastidio del vivere", comunque esso si configuri, perciò anche della luce del sole (mai c'è una solarità piena in Addamo, la luce o è malata, o prevalgono il grigio e la notte), è il protagonista di Il giorno in cui morì Chesmann. Nuova controfigura di Addamo nella sua professione di giornalista personaggi non a caso sono sempre studenti o impiegati o professori, quali anche i due simbolici professori di Piccoli dei questo personaggio trova i suoi antagonisti in due ex compagni di giovinezza, Tanino, più fortunato nella carriera e di pochi scrupoli, incontrato per caso in una via di Catania, e Giorgio, aspirante deputato. Catania è la solita città che muore di inedia e di pigrizia, nonostante "brillino le vetrine e le vernici delle auto", notazione ironica questa per ribadire che la gente vive nella sostanziale indifferenza degli altri, immersa ora nel vuoto di valori del dopoguerra e degli anni del boom economico. Le ragazze conosciute dai tre amici negli anni della guerra si sono sposate e alcune tradiscono i mariti per noia. La "fauna" umana dunque rispetto a quella de Il Giudizio della sera non è cambiata; anche l'infermiera del dentista è bionda, linda, "appetibile attrezzo" della ditta, scintillante come i cromi, i mogani e i globi della luce dello studio medico, e il salone di Giorgio odora, come altrove odorava la casa della prostituta, di "rossetto, colonia, sigarette", in un pullulare di soggetti "gradevoli", "ridolenti"; fra le quali la moglie semiebete e triste di Giorgio viene offrendo le bibite. Nulla è cambiato nella specie-uomo (solo la nuova cornice borghese consumistica), anzi tutto sembra peggiorato, perché manca l'attenuante della guerra e della fame: prosperano al contrario l' intrallazzo politico e la programmatica reificazione della persona. Evidenti sono nella tessitura del racconto le suggestioni culturali del nouveau roman, della letteratura industriale, della polemica di Adorno e Horkheimer contro i prodotti dell' industria culturale, idee e spunti che Addamo con pronto e raffinato mimetismo utilizza, come precedentemente gli altri congeniali motivi meridionalistici o novecenteschi. Cosa c'è da aspettarsi da una società, da una cultura come quella occidentale, in cui antropologicamente parlando, l'unica forza attiva e vincente è la "mandibola" di Tarunospasmodicamente impegnata a "ingoiare" dal bar al ristorante al salone della casa di Giorgio granite, brioches, cibo, bibite... o da una società come quella americana - si chiede Addamo abituata al genocidio di massa (pellerossa, negri?...). A ragione lo scrittore conclude che Chesmann "vive e muore", Chesmann come tutti: sulle sorti dell'individuo e dell'umanità si può blaterare ("le parole svolavano come farfalle") in modo più o meno interessato, o capzioso, o insulso o sostanzialmente indifferente, ma la tragedia vera di Chesmann resta quella di ogni uomo per il quale storicamente e ontologicamente non esistono vie di fuga, di scampo. Poiché "l'uomo è origine e nulla", i poeti sono perenni cantori del Nulla, tuttavia incapaci di rinunciare alle "penne di pavone" (Bellezza sovrana). Il fallimento dell'intellettuale nella ricerca di una Verità possibile, che nelle raccolte poetiche è sofferto e verificato da Addamo direttamente sulla sua pelle, nel terzo racconto dei Palinsesti, come già ne Il giudizio della sera, viene stigmatizzato come cattiva coscienza o peggio arrivismo mercificato e mercificante nella tornata sarastica contro la "cultura" che a Catania "scorre a rivoli come un liquido appiccicoso e scintillante", una Catania in cui le vicende cosiddette "morali" esaltano scrittori e conferenzieri, ma non servono per cambiare il mondo. I Palinsesti (1972) precedono L’uomo fidato e lo preparano, sia come esito ideologico ultimo, sia come strategia narrativa. Passando dal primo al terzo racconto, e per effetto dei modelli letterari prima accennati, e perché Addamo tende ormai a inventare le sue "storie" come dimostrazione di suoi assiorni; i personaggi vengono scarnificandosi, perdono in individualità, lasciando trasparire l'idea che li ha generati. L'aridità affettiva, l'assenza di realistici rapporti interpersonali, la mancanza di sfumature psicologiche, il riduttivo orizzonte vitale (preselezionato dal razionalismo gelidamente c1assificatorio e scettico dell' autore) li rendono non "caratteri", ma "tipi" e, dal terzo racconto a L'uomo fidato, allegorie fin troppo evidenti dell' assunto teorico dello scrittore che, nonostante l'iniziale ribellione a ogni forma di dogmatismo, in contraddizione quasi con se stesso, si ritrova a veicolare al lettore un nuovo dogmatismo, il suo, anche se lancinante per il messaggio - antimessaggio di cui è portatore. Tali i protagonisti de L’uomo fidato, una storia ambientata in una Catania ormai senza reale spessore geografico-topografico, fra la fine del 197 5 e il giugno del 1976, ma con flash-back, digressioni, sommari (qui più estesi e associati alla consueta addamiana alternanza di focalizzazione zero e focalizzazione interna) che ricostruiscono il passato di Marco, di Rosetta e del loro rapporto con il dottor Foti sullo sfondo storico, più enunciato che compiutamente rappresentato, degli anni '60 e '70, dal boom economico alla recessione al compromesso storico. Rosetta, meno ingenua e più pratica di Marco, o forse solo più cinica (poiché il mondo è diviso in padroni e servi - dice al marito - i deboli devono trasformare la loro debolezza in forza ), è il "tipo" della donna massificata e grigia, che si limita a sopravvivere a un matrimonio, dove l'amore è morto e che si trascina nella noncuranza reciproca dei coniugi, intervallata da ciclici "travasi di sperma". Suo orizzonte vitale l'inquisizione implicita o esplicita al marito su aumenti o arretrati, e, dopo la delusione della casa promessa ma non assegnata, una totalizzante,compensativa, folle corsa ad inutili oggetti di consumo per esorcizzare il fallimento esistenziale e l'angoscia di morte (cap. 16). Significativamente Rosetta prima rinsecchisce per il dolore-rabbia, poi adagiatasi nel ristagno quotidiano ingrassa fino a diventare una "massa carnosa e cadente". Il dottor Foti invece è il "tipo" sociale del funzionario medio democristiano, dal volto "placido, tranquillo, sicuro, ben rasato, dalla eleganza ostentata e solida... dalle narici delicate... dalle dita grassocce dove tra i peli brilla qualche anello... dal sorriso stereotipato... con una luce dura nello sguardo", uno che sotto l'apparente affabilità e cordialità conosce molto bene uomini e cose e sa quando e come usarli, piegandoli ai suoi interessi ("l'interesse di Foti, di prestigio, di carriera, di potenza", cap. 20) mistificati come interessi superiori del partito coincidenti con quelli della Nazione. Sulla sua bocca sono rintracciabili tutti i luoghi comuni della propaganda democristiana contro la Russia e i comunisti: "E me lo dice cos 'hanno i paesi comunisti. Hanno la giustizia e l'uguaglianza e glielo do per scontato ma non ci credo e non è vero... E lasciamo stare quanto è successo in Ungheria e in Cecoslovacchia. L'uguaglianza va bene: ma di poveri. E per di più.. .non sono liberi. Qui c'è la disuguaglianza, l'ingiustizia. Però la macchina l'abbiamo tutti, i negozi traboccano, le nostre case traboccano. Televisione, frigorifero... E purché l'ordine generale non venga sconvolto, uno qui in Italia può fare quello che vuole..." (cap. 5). La conclusione è che Trigillo, simpatizzante comunista, se è "per la dignità dell'uomo, per il lavoro, per il dovere.. per il progresso ordinato" non può non stare con Fotie con la D.C. (cap. 4). Anche le parole dell'Onorevole democristiano porranno drasticamente a Trigillo la scelta fra lo spirito dell' occidente e lo spirito asiatico, fra diritto e violenza, carità e brutalità, spirito e materia, libertà e tirannia, condizionando lo al voto democristiano (con il ricatto dell' appartamentino) per il trionfo del Bene sul Male. Quando il dottor Foti evolverà negli anni del compromesso storico da democristiano a comunista e da "tipo" ad allegoria del disincanto comunista dell'intellettuale indipendente di sinistra Addamo) saranno ancor una volta la difesa della libertà, della democrazia, del lavoro a giustificare il suo trasformismo, e nel dialogo con il cavaliere Calaciore, esponente di primo piano del PSDI, e con lo stesso Trigillo, prima in ufficio e poi a casa di quest'ultimo nella visione notturna in cui gli apparirà "nel bianco uovo della lampada del paralume". I dialoghi di significato politico fra il dottor Foti e altri esponenti politici, o fra il dottor Foti e Trigillo, nei capitoli quarto, quinto, decimo, diciottesimo, diciannovesimo, richiamano sequenze analoghe di Sciascia non solo per la coincidenza delle tesi sostenute, ma anche per la schematica secchezza delle battute (Il giorno della civetta, A ciascuno il suo) e per il residuato di stilemi, metafore, visioni allucinatorie affini (de Il Contesto: "Sì, ero innocente... Ma che vuoi dire essere innocente quando si cade nell'ingranaggio"... "l'uovo del potere da gallina della rivoluzione..."; in rodo modo e ne Il consiglio d'Egitto il profilarsi nella visione fantasmatica del volto dell'antagonista dietro le lenti e il deformarsi sul foglio di un disegno o degli stessi caratteri tipografici in formiche, vermi...). Nel diciannovesimo capitolo Marco ha ormai chiarito a se stesso il senso del vivere e ha fatto la sua scelta, quella del rancore-odio da accompagnare a un gesto significativo per non vivere e sparire dalla faccia della terra come un insetto inutile, alla maniera del nonno, il quale dopo il giorno del funerale era come se non fosse "mai esistito, mai nato, mai vissuto e camminato" data la sua "assoluta sostituibilità, la sua estrema disponibilità al niente". A tal fine prima comincia a fissare in ufficio con occhi "costanti, per niente minacciosi, anzi sereni e perciò carichi di una tranquilla, fantastica totale minaccia" il dottor Foti che lo spia con diffidenza e inquietudine, poi si arriverà alla sbadataggine trascuratezza delle imposte non trattenute dai ganci che provocheranno la morte del capufficio, sbalzandolo dalla finestra del quarto piano. Anche quello di Trigillo si può leggere come un itinerario di formazione alla rovescia. Addamo tesso afferma che il personaggio di Marco potrebbe funzionare come strumento di una "pedagogia dell' assenza e della disperazione". La vicenda del piccolo-borghese Trigillo si carica nella scansione ideale delle sue fasi (l'intreccio non si ordina secondo la scansione cronologica lineare) di una valenza universale, diventa un' altra metafora della tragedia esistenziale. All'inizio del romanzo Marco è il "tipo" dell'impiegato solerte, efficiente, che, ottenuto lo stipendio sicuro, la "stabilità per la vita", è solo interessato a trovare "nel mondo che c'è" un rifugio quieto per rimanervi fino alla morte. Queste caratteristiche si somatizzano in un corpo tozzo e tendente alla pinguedine; tuttavia egli è anche buono e, a detta della madre e della moglie un debole agnello in un mondo rapace di lupi, perciò "conserva negli occhi uno stupore innocente per le cose". Il mondo fuori dell'ufficio è "feroce e difficile" -scrive Addamo- la società con nuovi mali (la speculazione edilizia, l'inflazione, la disoccupazione...) che si sommano ai vecchi ("vecchi privilegi", "vecchissima miseria", "rapporti fra le classi immutati"), ma per Marco l'ufficio è un cosmo ordinato e rassicurante, datala sua beata inconsapevolezza che gli schiavi-robot tranquilli come lui esistono solo per dare ai veri attori come il dottor Foti che "agiscono sotto luci splendenti la certezza e la padronanza del loro essere". Quando, sfumata la casa nonostante sia divenuto democristiano, capisce che il dottor Foti lo ha fregato, perché "un uomo come Trigillo è innocuo, non porta voti, non fa scandali", e che Foti, uno che passa su tutto e su tutti, si è opportunisticamente convertito alla lettura de "L'Unità" e al comunismo, come tanti altri in ufficio, dopo l'esito del referendum sul divorzio e le amministrative del 1975, al punto che a Marco sembra che "tutti gli angoli sventolino di Unità dall'atrio, ai cessi, ai corridoi, agli ambienti più chiusi" (cap. 18), Trigillo, nella morte delle ideologie e per il trauma delle mistificazioni sul concetto per lui invece fondamentale di libertà si sente all'improvviso in balia della realtà, delle cose, che sembra gli si rivoltino contro. Bottoni, asole, coltelli, piatti, chiave, ascensore sfuggono al suo controllo. La corsa pazza dell'ascensore che un giorno intrappola lui ed altri, sbalestrandoli su e giù lungo i vari piani senza permetterne l'uscita, universalizza umoristicamente la condizione interiore di soffocamento di Trigillo a soffocamento-disorientamento collettivo. Il rammarico di Marco per la perduta innocenza (la ingenua fede comunista) e la perduta identità ("Ero innocente... E ora, adesso, non so più cosa sono. Chi sono, me lo sai dire?"), visto l'afflusso di borghesi nel partito e il prossimo "secondo" connubio st0l1CO fra PCI e DC dopo quello della prima Italia nuova (cap. 15), si dilata a tragico interrogativo su chi, nell'ingranaggio assurdo del mondo, sia "la guardia" e chi il "ladro", sul punto indefinibile in cui mala fede e buona fede, diritto e rovescio vengono a coincidere. Anche Trigillo, come Gino, Favilla, il cronista di insuccesso, perviene alla conclusione che, "poiché in ogni uomo c'è una astuzia recondita e perfetta che gli impone di trasformare in criteri di valore universale quanto è solamente frutto di elementari (egoistiche) esigenze vitali", non potrà mai esserci rimedio nel mondo-società al Male, lucida onnipresente follia che può produrre indifferentemente "umiliazioni, stupri o guerre". In questa verità negativa e definitiva alla fine Marco si acquieta "senza più scosse e domande" (cap.15). II "futuro assente", la "perdita di centro" (con le altre variazioni sullo stesso tema quali "l'assenza di progetti”: o la metafora della collana dai grani disgregati o lo specchio che gli rimanda il suo volto-maschera di orrore), coagulano negli ultimi capitoli nel sentimento liberatorio dell'odio (Li avrebbe uccisi tutti), un odio "infinito, razionale e assoluto, inestinguibile e caparbio", che non risolve il conflitto esistenziale, ma lo cristallizza nelle sue inconciliabili antinomie e perciò si configura come un odio - rancore - dolore che "emerge da lunghe dissonanze", quelle appunto che legano Il giudizio della sera a L'uomo fidato, testi non solo cronologicamente vicini, ma nati dalla stessa condizione psicologica di bilancio ultimativo su una Vita - nevrosi che è "fuga del tempo dietro i singhiozzi" e corsa verso una Morte - Nulla "per crinali sgomenti... visitati da fantasmi" ("La zia canuta"). Sottili somiglianze corrono sul crinale della Morte fra il dilagare del piscio e della merda nella Catania fascista degli anni quaranta e la frenesia consumistica, malattia anch' essa mortale, che coglie la Catania degli anni '70 "...così accadeva a Catania dove il consumo del superfluo era un modo di minimizzare la catastrofe da tante parti preconizzata... Era un presentimento che prendeva tutti; un panico sfuggente... Il furore senza destinatari si placava in un attivismo senza scopi". Nelle raccolte poetiche, scomparsi i personaggi controfigura, Addamo sale in primo piano con il suo radicale nichilismo storico e metafisico. Nella poesia Idillio, ferocemente sarcastica dal titolo a conferma della lunga corrosiva ironia addamiana, il poeta scrive: “Interfeces et urinam”. In qualunque modo la mettiate, non angeli e dei, ma virulento sangue presiede alle nascite. E la morte -ovviamente - non è da meno (a non dire, poi, della vita"); in La metafora dietro a noi: "Il terrore è la via non il luogo dove -comunque - si giunge", e in strutturano un universo negativo che poco o nulla ha di realistico o di Apollinaire:"... spenti ormai gli echi la parola felice un' evocazione di futuri assenti". Dagli anni '80 agli anni '90 le raccolte La metafora dietro a noi Il giro della vite, Le linee della mano, Alternative di memoria, con continui combinatori rimandi dall’'una all'altra, allineano nei versi metafore e aforismi che evocano e naturalistico. I temi sono comuni a tanta poesia del Novecento, dai decadenti francesi all'ultimo Montale, come anche la punteggiatura e la sintassi trasgressive, ma la tecnica compositiva è tipicamente addamiana e prevale la riflessione filosofica. La Natura spogliata della sua bellezza e la Vita delle sue illusioni vengono preliminarmente, anche sul filo di una memoria colta e allenata, sezionate in "frammenti" "scaglie'" "scorie" "istanti"(tutte parole tematiche e ricorrenti), successivamente ricomposte secondo una spericolata intellettualistica geometria poetico-fantastica che non punta a fulgurazioni lirico-musicali ma ad enunciati prevalentemente lapidari e in un registro in genere medio-alto come quello dei romanzi. I testi ironizzano sulla luna, i canori uccelli, il mare acquoso, cari ai poeti di maniera e si popolano per contrasto di gatti e cani randagi, di tarli, zanzare "afose", libellule dalle ali di acquitrino, di mosche che passeggiano su vene gialle, di topi in fuga, di insetti intrappolati, di lucertole azzannate, di pipistrelli, avvoltoi, gufi, sparvieri, scarafaggi. Il pessimismo detta altresì un campionario di oggetti, persone, luoghi che, in se stessi o per le determinazioni che li precisano, sono portatori di una cupa emblematicità: pattumiera di passi perduti, grata, falle, materia untuosa, calma vischiosa, ciarpame, pozzo, stanze di fumo, nebbie, urla, ululi, droghe e sonni, menzogna aleatoria e minacciosa, mendicanti, puttane, corpi adiposi, dadi truccati, specchi ombre, cadaveri, notti insonni, buchi, vuoto infinito di una stanza, cielo perenne e (naturalmente) vuoto.. a cui vanno aggiunti l' ossessivo andirivieni di 'passi' coniugati a sentieri, strade, errori .viaggi, messaggi falsi, selve di segni che non approdano a "punti di incontro, di incrocio, di arrivo" perché non "si sa se andare, sostare, tornare" o "cosa cercare", e - per ampliare un elenco che potrebbe essere ancora più lungo - quella ridda di occhi cavi, occhi vuoti, occhi atterriti, occhi sbarrati, occhi "precisi e torvi del morente", contigui concettualmente a suoni ciechi, specchi ciechi, edipi ciechi, volti di gesso, scheletri che "guardano dappertutto con . i nostri occhi" e "gravemente annusano la disfatta che governiamo". Il poeta, incorreggibile Narciso e allucinato Orfeo, si accanisce sulla parola, ma la parola restituisce soltanto se stessa, cioè l'assenza assoluta di un senso Altro (con chi parlano i morti? Dopo con chi parlano?) e esperienze altrove già verificate come inferno esistenziale, naufragio di certezze, esilio: "Vivremo tracotanze d'ore fra donni tori e alberghi loschi a Incremento respireremo i rochi odori della notte umana" (Decenza), l'Olimpo ormai vuoto di quei "numi dei quali con piccolo sforzo si potrebbero riconoscere le facce patibolari e sante", numi che è costato fatica agli uomini "partorire"e seguire nel loro"viaggio senza meta" in attesa di miracoli da registrare nel "ripetitivo gioco di una Vergine e di un Gesù" (In gioco). L'astuzia dell'uomo, ripete Addamo pensando a Schopenhauer, Nietzsche e agli esistenzialisti, si è affannata a costruire, per vincere l'angoscia davanti alla morte, "universi a non fìnire...l'Eden e il mercato", ma "la vecchiaia saggia del mondo è ...muro screpolato di ossa ritorte e teschi, garruli sibilanti nella spinta del vento" ("La zia canuta"). La poesia Chiarezza si potrebbe assumere come suo testamento spirituale e sintesi del nostro discorso, nei versi:
“…non salire, non gridare, non correre, non c'è più strada - rovente chiarezza intellettuale - sei ormai giunto dov'è l'uguale fondo di tutte le cose '. …e "sai cos’è' la morte"
|
|
| biografia | | bibliografia | | recensioni | |cenni bibliografici| | farfalle| | il giro della vite| | le linee della mano | | a Vera e Cetti | | la metafora dietro a noi | | alternativa di memoria | | il bel verbale | | Leonardo e i suoi amici | |copertine| | premi | | premio Moravia | | delle difficoltà ... | | intervista | |
|