Sebastiano Addamo - Il preside

 di  Francesco Valenti

 

Il mio intervento vuole essere solo un ricordo. Il ricordo di un uomo che per anni ha vissuto la dicotomia, per certi versi contrapposta, di insegnate e di preside, e di fine intellettuale. Il mio vuole essere il ricordo di un uomo, che nonostante il successo scelse di vivere quasi nell' ombra, lontano dai riflettori e dalle ribalte. Il ricordo di un uomo che, nonostante le lusinghe di sempre più facili e meritati riconoscimenti, da pagare al prezZo di una emigrazione nel nord Italia, decise di vivere nell'oblio della Sicilia e soprattutto della sua Catania.

Conobbi Sebastiano Addamo quando frequentavo il secondo anno del Liceo di Lentini, agli inizi degli anni settanta. Egli aveva preso il posto del preside Privitera e si portava dietro la triste fama di professore severo e rigidissimo e ciò, per noi ragazzi, che stavamo cominciando ad assaporare, anche se dilavati dal provincialismo, i primi echi della rivolta studentesca, era quanto di peggio si potesse aspettare da un preside. Sapevamo anche che aveva pubblicato un racconto dal titolo Violetta, la strana storia di una ragazzina mezza matta che portava al guinzaglio un rospo, ma la cosa non ci turbava più di tanto. Quando a scuola lo incontrammo per la prima volta, per uno strano scherzo del destino che ci vide attori e spettatori nello stesso tempo, e quindi noi alunni salire in cattedra per giudicare i professori e il nuovo preside, non ci sembrò poi così pericoloso. Addamo si presentò a scuola, pur abitandone vicino, con un'auto desueta per quei tempi, una Skoda di un impossibile colore verde. Dalla scatoletta di latta uscì un uomo basso di statura, con la fronte stempiata, la sigaretta penzolante da un angolo della bocca e sul viso un paio di occhiali dalle spesse e scure lenti, che non facevano vedere gli occhi e che mimetizzavano perfettamente qualsiasi espressione.

Alla prima ora, quel giorno, venne il professore di Inglese, uno di Catania, fascista sino al midollo, edonista sino all'inverosimile e convinto di essere il bello della scuola e il casanova delle insegnanti. Spese tutta la sua ora di lezione inveendo e sentenziando contro il nuovo preside, reo di essere non solo brutto e orbo come una talpa, ma soprattutto comunista.

Durante il resto dell'anno il preside Addamo si fece vedere con noi poche volte. Lo incrociavamo la mattina davanti alla porta con i suoi occhialoni scuri e la sigaretta penzolante e nello stesso punto lo rivedevamo alla fine delle lezioni, come se non si fosse mai mosso da li. Durante la giornata lo incontravamo, mentre lentamente incedeva con il suo passo felpato per andare nelle classi del triennio, cosa che faceva volentieri, per supplire qualche insegnante. Di quelle ore che Addamo trascorreva con i nostri compagni più grandi uscivano resoconti terrificanti. Interrogazioni di storia e filosofia degni della Gestapo e relativi voti, mai superiori al tre. Spaventosi discorsi di politica e apologia spudorata verso il marxismo, nonostante l'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Condanne simili a quelle dell'Inquisizione verso i cattolici, rei di tutte le nefandezze ecc.

     Le nostre speranze verso un futuro scolastico migliore venivano di colpo gelate, al triennio ci aspettavano tempi duri.

Se non fosse stato per questi resoconti del preside Neddu Addamo non si sarebbe quasi avvertita la presenza. In fondo sembrava di vivere l' atmosfera di aurea mediocrità che, qualche anno dopo, lui avrebbe mirabilmente descritto in due racconti, pubblicati con il significativo titolo di Piccoli dei, apparentemente piccole storie di piccoli professori. Solo nell'ultimo trimestre, quando durante concitate e animate assemblee d'istituto, fu costretto ad esporsi per prendere più di una volta le difese senza speranza, di quello che tutti consideravano il suo pupillo, il professore di matematica, reo, secondo gli studenti dell'ultimo anno, di trascorrere più tempo a fare politica che ad insegnare, capimmo che quello che si diceva su Addamo, della sua freddezza, del suo essere privo di sentimenti, del prevalere sempre e in ogni caso del freddo calcolo della ragione aveva un fondo di verità. Il preside stroncò ogni tentativo di protesta imponendo, senza ammettere alcuna replica, l'osservanza pedissequa di tutta la normativa scolastica in materia e castrò senza appello ogni contestazione.

Il preside Addamo era anche famoso per la sua fama di menagramo, con cui ben presto facemmo i conti. Era in programma una finale di coppa dei campioni e la squadra italiana era favoritissima, avendo vinto brillantemente il campionato; mentre la squadra avversaria era modestissima. Una delegazione di studenti andò dal preside per chiedere se l'indomani, visto che la partita sarebbe state trasmessa verso la mezzanotte, potevamo entrare alla seconda ora. Addamo fu irremovibile, "niente deroghe inoltre vi consiglio di studiare e di lasciare perdere la partita tanto la squadra italiana perderà". Eravamo usciti dalla presidenza sconfitti, ma con la certezza che il preside, anche se grande studioso, di calcio non capisse un bel niente e che l'indomani ci saremmo presi la nostra rivincita. Accadde invece che la squadra italiana perse malamente e con un risultato che non lasciava spazio ad equivoci o a recriminazioni, sette a uno, una vera Caporetto e l'indomani, come al solito, Addamo davanti la porta della scuola ci accolse in silenzio, con la sua immancabile sigaretta, ma con un ghigno quasi satanico sul viso.

Solo i primi anni del triennio ci fecero conoscere o meglio intravedere chi era veramente l'intellettuale Sebastiano Addamo. Era stato appena pubblicato, per i tipi della Garzanti; Il Giudizio della sera, la storia dell'educazione sentimentale di un adolescente, consumata negli anni della guerra tra i vicoli malfamati di Catania, che le speculazioni edilizie degli. anni cinquanta non sono ancora riuscite a cancellare e di cui Addamo dava una descrizione, anche se a volte cruda, pressoché reale e ancora, dopo cinquanta anni, attuale. Una descrizione se vogliamo atemporale, proprietà intrinseca delle cose universali. Nel libro si parlava di prostitute e di cornuti, che per Addamo erano soprattutto e fondamentalmente essere umani, di sporcizia, di fame, di miseria, di puzzo d'escrementi e del trapasso dall'età dei padri a quella del parricidio, condizione triste e se vogliamo crudele, ma necessaria.

Da qualche anno era stato girato Edipo Re di Pasolini e il libro d'Addamo, si rifaceva, almeno in parte, all'interpretazione Pasoliniana del rapporto tra padre e figlio, oltre che allo stesso Freud e ad altri studiosi di psicoanalisi come Hillman, senza dimenticare l'Agostino di Moravia. Comprammo una copia del libro, costava 3.500 lire, l'equivalente di quattro pacchetti di buone sigarette e cominciammo a leggerne alcuni brani. Abbandonammo la lettura subito, troppo difficile comprendere cosa Addamo volesse dire, troppo lontane dagli schemi stereotipati che certa letteratura scolastica ancora oggi purtroppo propone le tematiche affrontate, inimmaginabile, per noi, l'esperienza del giovane Gino, il protagonista del libro. Per non parlare della mancanza di qualunque speranza e della presenza quasi ossessiva della miseria e della morte, che per cèrti versi ricorda la poesia di Cesare Pavese o il più recente prologo con cui Gesualdo Bufalino inizia il saggio La luce e lutto. Ci chiedevamo inoltre, sarcasticamente, cosa significasse l'appellativo saggista con cui aveva firmato un editoriale pubblicato nella prima pagina dello storico giornale "L'Ora" di Palermo.

Una fredda mattina d'inverno, noi a scuola non avevamo i riscaldamenti  e si stava in classe con il cappotto, la professoressa d'Italiano non venne, si era presa l'influenza, stavamo in aula muovendoci appena per il troppo freddo, come ghiri in letargo, parlando di cose futili, quando apparve alla porta Sebastiano Addamo. Si sedette in cattedra, prese grevemente il registro e cominciò con voce atona a fare l'appello. Eravamo letteralmente terrorizzati, avevamo da poco cominciato lo studio della filosofia e le nostre capacità intellettive, secondo i nostri professori abbastanza scarse erano prive di strumenti metodologici capaci di farci, non competere, con lui non si poteva, ma sperare in una resistenza strenua che durasse almeno un' ora, il tempo che intercorreva prima che il suono della campana ponesse fine al supplizio che ci aspettava. Il preside cominciò a parlare dei filosofi greci, Anassimandro, Anassimene, Eraclito e quindi pian piano, come il pifferaio dell' omonima favola, con ragionamenti sottili e sempre più arditi, al limite del paradosso, cominciò a condurci per i sentieri inesplora1 della nostra mente. Si fermò all'improvviso e chiese ad uno del primo banco la sua impressione su quello che a noi sembrava un arzigogolo. Il nostro compagno sbiancò di botto e non riuscì a balbettare niente. Ci furono alcuni secondi d'interminabile silenzio, quindi Addamo riprese i suo discorso, con sillogismi e teoremi sempre più arditi, anche se si era reso conto che noi, miseri topi, c'eravamo, nonostante la melodia, persi nel labirinto del ragionamento. Fu così ogni volta che venne in classe Addamo parlava, ragionava, consumando una sigaretta dopo l'altra, che aspirava profondamente e voluttuosamente, tra un assioma, un sofisma,  un paradosso e noi a perderci nei meandri dei suoi pensieri, nel vortice sempre più tetro della nostra vacuità. Godeva, forse, di non farsi capire, si compiaceva di averci messo ancora una volta in crisi e che potessimo constatare che egli era una spanna più in alto di tutti gli altri professori che sino ad allora avevamo conosciuto.

Quando si fermava ci riconduceva alla ancora più amara realtà raggelandoci con una domanda, anche la più facile, come, ad esempio chiedendoci semplicemente la nostra opinione.

Addamo, infatti, non voleva sapere quale fosse il pensiero di Platone, la logica di Aristotile e più avanti il metodo di indagine di Cartesio, Kant o Hegel, ma cosa aveva elaborato il nostro atrofico cervello servendosi del le metodologie dei suddetti filosofi. Egli non faceva lezione di storia della filosofia ma, servendosi delle astuzie della parola e degli arcani sortilegi della ragione creava filosofia pura, indagando ed elaborando dialetticamente idee, pensieri, anche se essi ci apparivano, a stento accennati, appena abbozzati o nati come larve informi e destinati a morire subitamente. Addamo con quelli, che per noi erano arcani sillogismi voleva, soprattutto, testare se eravamo capaci di difendere le nostre idee. Chi non è capace di lottare per le sue idee ci diceva, non merita neanche di vivere.

I suoi discorsi, peccato che di essi non sia rimasta alcuna traccia se non nella memoria di coloro che vissero l'avventura di averlo come insegnante o preside, erano impregnati di filosofia, di storia, di teologia, di letteratura, di politica, di umanesimo, di fine ricerca antropologica. Erano sottili e argute osservazioni e considerazioni sull'uomo, sulle sue pulsioni, sulle sue contraddizioni e per quello che egli considerava i suoi vizi, come la speranza, l'illusione, la fede.

Per questo spesso criticava i cristiani e certo cristianesimo, fatto solo di formule e riti e poco di sostanza, di tante pratiche di devozione e di poca osservanza ai veri valori della fede. Addamo ateo convinto conosceva benissimo la sacra Bibbia e tutti gli autori cristiani, da Agostino a Pascal sino a Fromm.

Era capace di citare interi brani del vecchio testamento e di fame un'esegesi teologicamente corretta, che poi smentiva citando le più aggiornate e materialiste correnti di pensiero e criticava parlando del pragmatismo storico della chiesa cattolica, che a dir suo aveva tradito l'essenza stessa del Cristianesimo. Non si può affermare che fosse un cattolico pentito, come certi professori che avevamo e che si erano professati atei dopo il suo avvento a scuola. Anzi Addamo per questi non aveva nessuna stima, come non aveva stima dei suoi compagni di partito a Lentini, che ben presto, passati i furori della gioventù, ammesso che Addamo sia mai stato intellettualmente giovane, e considerando che i suoi primi romanzi hanno forse un'innaturale maturità, aveva abbandonato al loro destino di bigotti burocrati, che difendevano la loro pochezza dietro il centralismo democratico e che delegavano non solo le decisioni ma anche la capacità di pensare ai dirigenti e ai loro interessi del momento. Una volta gli chiesi, provocatoriamente, con l'incoscienza tipica dei giovani, se lui, visto che conosceva tanto bene il Cristianesimo era veramente ateo o il suo non fosse un atteggiamento, che tra l'altro in quegli anni era molto di moda. Egli mi guardò e sorridendo mi rispose; citando lo scrittore cattolico francese Georges Bernanos e santa Teresa di Lisieux, "tutto è Grazia di Dio anche essere atei".

Ma ciò che Addamo soprattutto criticava, anzi odiava - e si vedeva chiaramente in ogni suo atteggiamento - era la mediocrità. Per lui la mediocrità non aveva colore politico né ideologia, la mediocrità era solo mediocrità e quindi andava condannata, estirpata, bandita. Quindi cattolici mediocri o atei mediocri erano per lui la stessa cosa, e mentre aveva gran rispetto e stima per il parroco della matrice padre Castro, uomo di gran cultura imprigionato nel suo ruolo di parroco, odiava certi suoi compagni di partito che di marxista avevano ben poco. Per tale ragione uno dei suoi più grandi amici era un sacerdote con cui aveva anche fondato un giornale mentre tra i suoi più feroci avversari c'erano proprio i teorici e gli pseudo intellettuali della locale sezione del P.C.I.

Spesso Addamo, in classe, durante i suoi ragionamenti, le sue passeggiate nei meandri della mente o nei labirinti della ragione, dopo averci affascinati con l'acutezza del suo pensiero, le rare volte che non ci perdeva per strada, concludeva citando Marx. E noi, in quel momento, tirando . un bel sospiro di sollievo, sapevamo che aveva [mito la sua chiacchierata.

Anch'io vorrei concludere il mio breve ricordo su Sebastiano Addamo citando Marx, con una frase che spero sia di buon augurio per questo convegno: "L'ingresso nel mondo è nella conoscenza, nella sua presa di possesso, è nel presente, è nell'intuizione di un destino futuro".


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